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Drei
“Non male per una mezza porzione”: qualcuno viene, ma non è il film. Il tedesco Tom Tykwer sceglie una “inedita” triangolazione, e ci crede a tal punto da farne il titolo: Drei. Per non lasciare adito a dubbi, non è il numero perfetto, ma quello da circo equestre (cavallina la protagonista Sophie Rois, a quattro zampe pure gli altri due, Sebastian Schipper e Devid Striesow) di un mélo postmoderno che si tuffa tra staminali, chimere e tristezze metropolitane.
Berlino è bella, i berlinesi di Tykwer no: l'omosessualità e l'eterosessualità come varianti asettiche, progressivamente private pure dell'ironia che, l'incipit prometteva, avrebbe dovuto fare da eterno contrappunto, e contrappasso. Invece no, Drei si fa dry, secco e legnoso come le emozioni che rincorre e non acciuffa, mentre il regista non tiene i piedi per terra, se ne cruccia compiaciuto e invoca in colonna sonora il “ground control” della Space Oddity di David Bowie.
Basta così, almeno per noi. Se già Lola correva a fatica, Drei è uno sprint bruciato in partenza: ginnastica per sesso, stretching per stile, anoressia per poetica. L'amore ai tempi dei crucchi, happy few che pareggiano gli infelici di Antony Cordier, e il punto più basso di un concorso all'altezza.