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© 2024 Disney/Pixar. All Rights Reserved.
I sogni sono desideri… anzi no, sono film personali.
Nulla di nuovo o dirompente, se si considera che il mondo del cinema è stato associato alla dimensione onirica fin dalla sua nascita. In fondo, sedersi in una sala buia e immergersi in una storia proiettata su un enorme schermo luminoso è un po’ come addormentarsi ed entrare in una nuova dimensione in cui tutto è possibile, fino a quando la riaccensione delle luci sancisce il risveglio.
Ma i padri della psicanalisi cosa ne pensavano? Se Sigmund Freud non faceva mistero di detestare la settima arte (“La riduzione cinematografica sembra inevitabile, così come i capelli alla maschietta, ma io non me li faccio fare e personalmente non voglio avere nulla a che spartire con storie di questo genere” scriveva all’amico e allievo Sándor Ferenczi. “La mia obiezione principale rimane quella che non è possibile fare delle nostre astrazioni una presentazione plastica che si rispetti”), Carl Gustav Jung era più tollerante e affermava che “il cinematografo, così come i romanzi polizieschi, permette di vivere senza pericolo le emozioni, le passioni e le fantasie destinate, in un’epoca umanitaristica, a dover soccombere all’inibizione”.
D’altro canto, sempre secondo la dottrina di Jung, il sogno è sia un prodotto autonomo e significativo dell’attività psichica (in cui l’inconscio si manifesta con autenticità attraverso simboli e archetipi, ovvero l’esatto contrario di quanto sosteneva Freud), sia una sorta di teatro, dove ogni personaggio o elemento sono parte della psiche di chi li sogna.
Dal teatro classico al teatro di posa il passo è breve e non stupisce quindi che, nell’universo di Inside Out, “la fabbrica dei sogni” (definizione che, non a caso, è il nomignolo di Hollywood) della protagonista Riley sia il gigantesco studio cinematografico che dà il titolo questa miniserie Pixar: la Dream Productions, immaginata come un caotico mix fra gli studi della Paramount e quelli della Warner Bros., dove la competizione è spietata e si pensa solo a produrre, produrre e produrre… in tempi sempre più frenetici e con ritmi folli.
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Ambientata fra il primo Inside Out (2015) e il sequel (2024), Dream Productions è firmata da Mike Jones (sceneggiatore di Soul, 2020 e Luca, 2021), che ne dirige anche l’episodio conclusivo. La prospettiva scelta è quella del documentario backstage, che alterna riprese classiche, dichiarazioni dei vari personaggi, momenti imbarazzanti rubati dietro le quinte, luoghi inaccessibili e imprevisti catturati dal vivo. La grande macchina da presa collocata sul set, invece, coincide con la soggettiva di Riley e si accende ogni volta che la ragazzina inizia a sognare.
Dato che non esiste la possibilità di un secondo ciak (tutto avviene in diretta), il set, la sceneggiatura, i costumi, le musiche, i movimenti di camera, i tagli di montaggio e gli effetti speciali vanno preparati in anticipo. Finché era piccola, occuparsi del mondo onirico di Riley era facile, ma, ora che ha raggiunto i dodici anni e sta per entrare nell’adolescenza, il linguaggio e le tematiche dei suoi sogni (il cui scopo primario è ispirarne le decisioni) devono necessariamente cambiare.
Chi sembra non riuscire a comprendere il problema è Paula Persimmon, pluripremiata cineasta che (forte della sua insostituibile assistente Janelle e dei successi ottenuti con i “film” zuccherosi e glitterati che hanno accompagnato l’infanzia di Riley) si illude di poter continuare nella medesima direzione a oltranza. Quando a Janelle viene finalmente offerta l’opportunità di dirigere la propria opera prima, Paula si trova obbligata a sostituirla con il raccomandato Xeni (nipote della potentissima produttrice Jean Dewberry), spocchioso regista sperimentale di “sogni a occhi aperti”, che disprezza l’uso del copioni e predica l’improvvisazione come suprema forma d’arte.
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Lo scontro fra due personalità tanto agli antipodi rischia di ripercuotersi sull’equilibrio esistenziale di Riley e, visto che le sue emozioni (Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia) possono solo guardare i film senza intervenire, la questione va risolta all’interno della Dream Productions. Per chiunque conosca anche solo superficialmente l’ambito audiovisivo (e la spaventosa crisi che sta attraversando), la satira meta-cinematografica è evidente.
Abbiamo la regista boomer egoriferita che non riesce a capire perché il suo lavoro non riscuota più il successo di un tempo, la giovane filmmaker talentuosa che fatica a trovare il proprio spazio, l’hipster polemico (armato di macchina a mano) che reputerebbe commerciale anche Godard, la produttrice invadente (devota al business e convinta di sapere sempre quale sia la soluzione migliore per il pubblico), la star in crisi (Unicorno Arcobaleno), la compartimentazione rigida (c’è un regista specializzato in ciascun ambito dell’intrattenimento: comico, action, sportivo e horror), l’obbligo di inserire una storia d’amore stereotipata, la pressione sugli sceneggiatori, i reboot inutili e la dura legge dell’emozionometro (sostituto simbolico del box-office).
Se i bambini vengono rapiti dai colori vivaci, dalle gag vorticose, dalle animazioni e dai personaggi buffi (vedi Melatonina), gli adulti (soprattutto se cinefili) avvertono un sottile senso di disagio, in bilico fra la nostalgia dell’epoca “di che belli erano i film” (883 docent) e la consapevolezza che l’intero settore audiovisivo impiegherà anni, se non di più, per uscire dall’incubo in cui la pandemia, gli scioperi, il fanatismo ideologico, l’assenza di nuove idee e le continue polemiche sui social lo hanno precipitato.
Forse ci risveglieremo presto da questo momento buio e lo dimenticheremo con altrettanta rapidità. O forse no. Ma l’importante è continuare a creare nuovi sogni per chi ancora crede nel cinema, sia che ami l’intrattenimento più classico, sia che pensi che “l’arte dovrebbe sovvertire le aspettative del pubblico”.