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Don't Come Knocking
Alla ricerca di un tempo perduto, di città quasi disabitate, di figli lasciati al loro destino, di responsabilità paterne dimenticate. Ballata dolente e comica, movimento e stasi, classicità del testo e tocchi di ermetismo surreale, un Wenders doc, incapace di rinnovarsi, di evolvere il cinema a suo favore. Stanco, ripetitivo fino all'essicarsi di una poetica e di un'estetica anni '80, oramai demodé. Dal set in cui il protagonista Howard, alias Sam Shepard, all'improvviso scappa, si sta girando Il fantasma dell'Ovest, idea abusata della confusione filosofica di una frontiera geografica e politica che sembra tanto criticabile, ma che alla fine è l'impalcatura condivisa su cui poggiare l'intera storia. Tanto che il cowboy Howard è tale anche nella vita: non ha meta, lascia tracce, scompare, riappare. Ricalcando e mascherandosi dietro un'annacquata figura alla Steve Mcqueen (sesso, droga, alcool e vita sregolata), il protagonista di Don't Come Knocking amplifica la spersonalizzazione della materia, la vaghezza dell'assunto di fondo. Wenders è così, prendere o lasciare. Certi momenti (non manca il frame dalla tv di casa dove si vedono immagini di guerra dall'Iraq) paiono proprio un obbligo per esplicare quella partigianeria che altrimenti mai si potrebbe cogliere. Wenders sopravvive anche di amatori criminali che gli appioppano morale ed etica, quando il suo cinema è trascendenza del pensiero pura, senza regole, senza limiti, spesso senza un esplicito perché. Ipnotizza sì, ti coccola in un brontolio di dialoghi e drammaturgia assolutamente peculiare, ma spesso sembra un documentario sui canyon dell'ovest, un precipitato di dejà-vu del loser di turno, con un po' di acciacchi e il fascino di un ragazzino, un defilato e silenzioso scopiazzare apparizioni di umanoidi lynchiani. Constatiamo che lo stato delle cose sta paurosamente volgendo al peggio.