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Donbass
Dopo la discesa agli inferi nel caos di una Russia allo sbando (A Gentle Creature), Sergei Loznitsa ritorna in Ucraina (dove aveva già inquadrato in doc le proteste in Piazza dell’Indipendenza, Maidan, quando di fatto iniziò a cavallo tra il 2013 e il 2014 la crisi nazionale) per concentrarsi sull’attuale situazione in Donbass, regione all’est del paese.
Da aprile 2014, alcuni manifestanti armati si sono impadroniti di vari palazzi governativi: ancora oggi in quelle zone regna la confusione più totale. Separatisti da una parte, militari ucraini dall’altra, con tanto di truppe russe che non hanno perso l’occasione di invadere il territorio: è un “tutti contro tutti” che Loznitsa tenta di immortalare (in finzione) attraverso il consueto, inequivocabile sguardo.
Intanto operando una dispersione del punto di vista quanto mai suggestiva, di fatto seguendo un via vai di personaggi che si incrociano in varie situazioni per poi prendere altre strade, poi insistendo su quella che ormai è la sua consueta cifra narrativa quando si tratta di osservare l’essere umano – quasi sempre soggetto agente all’interno di un meccanismo prossimo alla farsa – ma soprattutto inseguendo l’essenza di un passaggio presente in Pain, racconto di Varlam Chalamov: “Una frase banale dice che la storia si ripete due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa. No. C'è un terzo riflesso degli stessi eventi, dello stesso soggetto, il riflesso di uno specchio deformante del mondo sotterraneo. Questo soggetto è incredibile e pertanto reale, esiste davvero e vive accanto a noi”.
Ecco, Donbass è il tentativo di farci riflettere osservando questo specchio mostruoso, dove – sempre per citare lo stesso regista – “la guerra viene chiamata pace, la propaganda viene presentata come la verità, l’odio viene chiamato amore: è in questi casi che la vita stessa comincia ad assomigliare alla morte”.
È un film difficile, per certi versi, e forse più lungo del necessario (121’), ma è anche vero che filmare l’assurdità di una guerra come questa (dove ci si sposa inneggiando allo Stato Federale della Nuova Russia) ed entrare in quel caos dato da un’instabilità spaventosa non è cosa semplice.
E Loznitsta – anche grazie a scelte stilistiche mai banali (pensiamo a quel long take in soggettiva verso il finale quando al check-point esplodono alcune mine: memorabile!) – ha dimostrato di saper fare anche questo.