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Copyright 2020 LUCKY RED S.r.l.
Con tipica solerzia italiana, Dogtooth arriva in sala a undici anni dall’uscita, quando ormai chi voleva vederlo ha già provveduto a farlo generalmente grazie a metodi alternativi (leggi: illeciti). Niente di incomprensibile: è il film (il terzo in assoluto ma il secondo in solitaria) che consacrò a livello internazionale il greco Yorgos Lanthimos, tra i registi più acclamati e celebrati del panorama contemporaneo.
Presentato a Un certain regard a Cannes 2009 e candidato all’Oscar come miglior film straniero, Dogtooth è ormai diventato un cult, punta di diamante della rinascita del cinema ellenico d’inizio decennio (erano gli anni in cui Attenberg e Miss Violence vincevano ai festival) e pietra di paragone per tutta l’opera del regista.
Copyright 2020 LUCKY RED S.r.l.Dopotutto il film rappresentò davvero una scossa per l’intera Grecia, ponendosi come una violenta, asfittica, allucinata allegoria di un Paese che, di lì a poco, si sarebbe ritrovato in una terribile crisi economica e sociale. È naturalmente una lettura col senno di poi, ma a distanza di undici anni appare evidente come Lanthimos e il fedele co-sceneggiatore Efthymis Filippou siano riusciti a intercettare la paranoia, le paure, il dolore di un popolo attraverso una spaventosa distorsione grottesca.
Per paradosso si riesce a comprenderlo e inquadrarlo con maggiore precisione proprio ora che per un decennio è stato analizzato, digerito, amato, odiato e si propone agli spettatori italiani da mesi lontani dalle sale. Ed è curioso che Lucky Red abbia scelto di recuperare e distribuire in sala un film tanto asfissiante.
Bersaglio è la famiglia borghese, dominata da un tirannico padre-padrone (imprenditore) che ha confinato la moglie (sottomessa) e i figli nel perimetro di un’elegante villa-prigione in cui le regole, le abitudini, i legami non collimano con la vita reale (anzi: ne sono una deformazione agghiacciante). L’intenzione sarebbe quella di non contaminarli con l’orrore del mondo fuori, ma l’inganno è palese: il padre è un despota che ha instaurato un sistema fondato sul controllo totale. L’innesto di un’esterna sconvolge il perverso equilibrio di quella falsa realtà coercitiva.
Copyright 2020 LUCKY RED S.r.l.Esplicitamente nel solco di Michael Haneke e Ulrich Sield, Lanthimos dà sfoggio di tutte quelle che sarebbero diventate le marche tipiche del suo stile: inquadrature fisse e frontali, annullamento emotivo, straniamento di matrice teatrale, aperture visionarie verso il grottesco. L’allegoria è scoperta, sin dal titolo-inganno (sta per “canino”: il padre ha convinto i figli che potranno uscire di casa in sicurezza quando perderanno quel dente): la casa è la Grecia, il padre incarna il patriarcato, i figli sono vittime sacrificali.
Dalle radici ancestrali della tragedia sorge un’astrazione atemporale che è in realtà riflesso del contemporaneo, una fuga dal realismo per squarciare la realtà. Tutto il cinema di Lanthimos sta qui dentro, e tanto basta. Indiscutibile l’incidenza sul cinema arthouse degli anni dieci, ma la rivelazione dello sguardo dell’autore contiene anche tutti i suoi limiti: i suoi film chiusi finiscono per chiudersi in se stessi, intrappolati nello schema teorico di un teorema che ammicca sia agli ammiratori che ai detrattori. Più furbo e provocatorio che crudele e feroce, già di maniera (ma comunque meglio delle rancide aragoste e dei cervi sacri).