PHOTO
Dogman
Close-up sulle fauci ringhianti di un minaccioso pitbull. Di fronte a lui, un omino che prova ad ammansirlo, “amore, amore”, “bravo, bravo”, per lavarlo e asciugarlo.
Matteo Garrone ci catapulta senza troppi fronzoli nella vita del toelettatore Marcello (Fonte) e, sempre senza troppi giri di racconto, capiamo anche in quali cupe atmosfere sia tornato il regista romano, dopo Il Racconto dei Racconti: siamo dalle parti de L’imbalsamatore, per capirci.
E anche questa volta il terreno di partenza è quello della cronaca: se allora lo spunto era dato dal “Nano di Termini”, con Dogman ci si ritrova a tu per tu con i terribili fatti relativi al cosiddetto omicidio del Canaro.
Ma come ribadito più volte dallo stesso regista, il film “non vuole in alcun modo ricostruire i fatti come si dice che siano avvenuti”: a Garrone interessa infatti addentrarsi in meccanismi oscuri, come quelli che regolano l’ambiguità del rapporto tra il sopracitato Marcello e l’ex pugile Simoncino (Edoardo Pesce, spaventoso), poco di buono che tiene sotto scacco l’intero quartiere, inquadrato in una periferia sospesa tra metropoli e natura selvaggia, con un mare malinconico a lambire quella terra desolata. Un luogo simbolico - è il Villaggio Coppola, dove il regista aveva già girato L'imbalsamatore e, in parte, Gomorra - un luogo di frontiera, dove prende vita questo western anomalo e suburbano, suggestivo e doloroso.
È un film di rara potenza, Dogman, figlio di un cinema che proprio nel regista di Primo amore e Gomorra trova uno dei suoi più abili creatori: la contrapposizione tra la gentilezza e la furia distruttrice, tra l’umanità e la bestialità, la non linearità a cui spesso la vita ci ha abituati nel delineare rapporti altrimenti impensabili, tutto questo sospeso in una tensione che anche le luci naturali e quelle di Nicolaj Bruel contribuiscono a non far scemare mai.
Sono lampi fugaci, momenti rubati da una consuetudine tossica e nociva, quelli che Garrone (anche autore della sceneggiatura insieme a Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) sembra regalare al suo protagonista, quando riesce a stare qualche ora con la figlioletta, con cui condivide la passione per le immersioni, o quando, di nuovo, si ritrova da solo nel suo salone di toelettatura, a prendersi cura dei cani più disparati. Ma Marcello è anche ben voluto dal resto del quartiere, altra situazione "ambientale" che Garrone riesce a tratteggiare ottimamente, soprattutto grazie alla direzione del cast di "contorno", da Adamo Dionisi (il compro oro) a Francesco Acquaroli (il gestore della sala slot), fino alle brevi apparizioni del pusher Mirko Frezza e del poliziotto Aniello Arena (già protagonista di Reality).
Resta l’unico però, Marcello, fino all’ultimo, fino a pagarne direttamente e in prima persona le conseguenze, a coltivare l’incauta e illegittima speranza di poter tenere a bada, ammansire proprio come riesce con i cani più feroci, quell’uomo ormai perso per sempre sulla strada senza ritorno lastricata di cocaina e furti, violenze e sopraffazioni: ma neanche le migliori dosi di polvere bianca riusciranno a tenere sotto controllo Simoncino, ormai rullo compressore senza più nessuno alla guida.
Quello che avvenne tra Pietro De Negri e Giancarlo Ricci (il canaro e l'ex pugile), in quel febbraio del 1988 (ma il film è ambientato ai giorni nostri), con il primo che rivelò di aver ingabbiato l’altro per poi torturarlo tutta la notte (ricostruzione che gli inquirenti giudicarono inventata) è solamente “l’inizio”, per Garrone, di una storia che bisognava reinventare e raccontare al contrario, seguendo la vicenda di un uomo che, nel tentativo di riscattarsi dopo una vita di umiliazioni, si illude di aver liberato non solo se stesso, ma anche la propria comunità e persino il mondo intero.
Pensando magari di poter ritrovare la dignità schiacciata. E la riaffermazione sociale (quel sottofinale onirico lascia forse il tempo che trova, ma la chiusura del film è straordinaria) perduta invece per sempre.