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Denise Capezza è Moana Pozzi in Diva futura - Foto Lucia Iuorio
"Noi siamo amorali, non immorali". Parola di Riccardo Schicchi, l'uomo che in Italia sdoganò il porno e con la sua agenzia Diva Futura lanciò nel firmamento dell'hard (e del costume nazionalpopolare) icone quali Ilona Staller (per tutti Cicciolina), Moana Pozzi e Eva Henger (sua moglie).
A ridargli volto e voce sullo schermo (dopo Fausto Paravidino nella miniserie Moana e Vincenzo Nemolato nella più recente Supersex) è Pietro Castellitto, diretto da Giulia Louise Steigerwalt - all'opera seconda e in gara a Venezia 81 - che a sua volta traduce per il cinema il memoir di Debora Attanasio (che sullo schermo diventa Barbara Ronchi, nuovamente diretta dalla regista dopo il buon Settembre, David di Donatello per il miglior esordio), Non dite alla mamma che faccio la segretaria - Memorie di una ragazza normale alla corte del re dell'hard (Sperling & Kupfer, 2013).
Targato Groenlandia (la casa di produzione di Matteo Rovere, marito della regista, già dietro la sopracitata Supersex), Diva futura – in concorso a Venezia 81 e prossimamente nelle sale con Piper Film – è feuilleton cinematograficamente innocuo, resoconto di un'epoca e di quei personaggi che poco aggiunge alle cronache e quasi per nulla lascia spazio a nuove suggestioni: a mancare è l'aria del tempo, la percezione costante è quella di un ragionamento attuale incapace di restituire quel periodo. È tutto, troppo raccontato, parlato, scimmiottato (da Castellitto nei panni larghi di quel folletto sbilenco e imprevedibile alle tre attrici chiamate a vestire i succinti abiti delle pornostar, Denise Capezza, Tesa Litvan e Lidija Kordić) da soffocare qualsiasi ipotetica trasfigurazione o l'idea di lasciare campo e respiro a qualche angolo d'immaginazione.
L'idea di partenza vorrebbe essere quella - condivisibile per carità - di raccontare una grande contraddizione, ovvero la "parabola tragica di un gruppo di personaggi che, se per certi versi si sono battuti per la libertà, paradossalmente hanno poi contribuito con il loro lavoro a normalizzare qualcosa che va contro la libertà della donna stessa, ovvero la mercificazione del corpo femminile", facendo leva naturalmente sul bigottismo imperante del Belpaese, ma il risultato è fiaccato da una trasposizione che non riesce a smarcarsi dalla semplice descrizione, saltellando avanti e indietro nel tempo (fino al 2012, anno in cui Schicchi morì in seguito alle complicazioni del diabete con cui combatteva da tempo), mescolando trasmissioni di repertorio (con i vari Costanzo, Baudo e Marzullo) ma sostituendo le interlocutrici reali con le attrici che le interpretano, adottando un registro filmico prossimo all'immediatezza della serialità media, fichetto quanto si vuole ma tendenzialmente piatto.
Si rimane così sempre in una comfort zone di superficie - eccezion fatta forse per quello che riguarda la complessa figura di Moana (morta a soli 33 anni per un tumore al fegato fulminante), ma anche qui sembra più un’occasione mancata - preferendo sempre ancorarsi al dialogo, alla parola, anziché lasciar parlare i vuoti di un contesto (sociale, politico, mediatico, affettivo) che le immagini cercano sempre di riempire, soffocare.
"Se sei stato barista e poi decidi di fare qualcos'altro non resti barista a vita. Se sei stata una pornostar potrai fare qualsiasi altra cosa dopo, la gente ti vedrà sempre e solo come una pornostar", parafrasando il passaggio di un'intervista reinterpretata dal personaggio di Eva Henger: è indubbiamente vero, ma il senso profondo di questa tragedia ci viene per l'ennesima volta sbattuto in faccia così, in primo piano. E così com'è arrivato svanisce altrettanto rapidamente.