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Barbara Ronchi in Dieci minuti
C’è un’immagine ricorrente, anzi uno scricchiolio, in Dieci minuti: una sedia difettosa – ma magari ne sono di più – nello studio della dottoressa che ha in cura Bianca, la protagonista del film. La parafrasi è semplice: la psichiatra mette alla prova chi le sta di fronte. “Me ne sono accorto!” si lamenta Niccolò, il marito della paziente, mentre cerca di sedersi senza farsi male, e lei subito: “Me ne sono accorta che se n’è accorto”. In fondo è tutto qui: ogni volta che ci accorgiamo che c’è qualcosa o qualcuno che sta mettendo il film fuori dai binari, ecco che le autrici ci sgamano, un po’ perché sono brave ed esperte e un po’ perché hanno ben chiaro il pubblico (leggi: target) di riferimento di questa storia “motivazionale”.
Ci sono tante possibili linee divergenti, nel film che Maria Sole Tognazzi ha liberamente tratto (con Francesca Archibugi) dal romanzo di Chiara Gamberale, in cui una donna in piena crisi esistenziale che, dopo aver toccato il fondo, ogni giorno per dieci minuti deve fare cose nuove e diverse. Divergenti, appunto, come quei lampi che prima suggeriscono, poi annunciano e infine negano la via alla commedia alla Nora Ephron, un po’ alla Heartburn: Bianca che finisce al funerale di sconosciuti e si finge un’amica di famiglia, Bianca che picchia un amante occasionale riscoprendo un accento siciliano tenuto sottotraccia, Bianca che ruba un cappotto e scappa per via Condotti, Bianca che si lascia brutalizzare dalla psichiatra.
Ma sono lampi, appunto, anzi, scricchiolii, perché Dieci minuti rivendica l’appartenenza al dramma borghese, dove per borghese non s’intende il ceto (benché quella casa in periferia abbia un arredo davvero notevole) quanto l’approccio (la crisi dei punti di riferimento: il matrimonio, la famiglia, il lavoro, la rete relazionale…): ogni passaggio, anche quello in apparenza più buffo e scapestrato, è funzionale a descrivere lo spaesamento emotivo di una donna intrappolata in un dolore da cui non sa uscire.
Giusto, ma forse è un po’ un’occasione mancata perché è nelle divergenze e nelle dissonanze che brilla il film di Tognazzi, non solo per l’interpretazione sempre misurata e mai retorica di Barbara Ronchi, che alla sottolineatura preferisce la sottrazione, ma anche – soprattutto – per Margherita Buy, strepitosa nel ritrarre una dottoressa in bilico tra l’impazienza e la scortesia con un tono sbrigativo e severo che si rivela improvvisamente strumento terapeutico, e Fotinì Peluso, mina vagante che si scopre pezzo mancante di una vita incompiuta. Due che stanno lì pronte a sabotare il dramma, volontariamente o meno non conta, ma che si fermano un attimo prima che lo scricchiolio si faccia più acuto, consapevoli che Dieci minuti vuole prendere sul serio la questione, guardare in faccia un dolore e indossarlo anche se le taglie non sono precise.
È evidente, c’è un’idea produttiva molto forte, cioè una storia di donne, sulle donne, per le donne (in cui gli uomini sono apparentemente deprecabili ma verso i quali c’è una tenerezza inattesa nel capire le loro fragilità), peraltro basata su un romanzo molto amato. Ma l’impressione è che dentro Dieci minuti ci sia un film più spettinato.