“Testa di corno” glielo dice la mamma, “cog**one” pure (ma anche la sorella con la confidenza dovuta ai congiunti), “poveraccio” se lo fa dire da un amico di famiglia, “povero disperato” se lo dice da solo. Se l’adolescenza è anche l’età dell’autocommiserazione, Diciannove ne è un catalogo, non privo di una sua ironia, con il volto del debuttante Manfredi Marini a evocare evidentemente quello di Lou Castel. Ma i pugni restano in tasca e ogni generazione incanala la rabbia come può, e l’alba della post-adolescenza è un’anticamera a gas (letteralmente: fornellini che puzzano, nonché superficialità igienica)

L’opera prima di Giovanni Tortorici, in Concorso a Orizzonti a Venezia 81, è un film pieno di citazioni, note a piè di pagina, parafrasi e paratesti, dove riecheggia senza mai che qualcuno lo verbalizzi il celebre incipit di Aden Arabia di Paul Nizan: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Un mondo esplicitamente derivativo, in cui il palermitano Leonardo, studente di Letteratura a Siena dopo un tentativo di emigrazione a Londra per frequentare una facoltà di Business, sopravvive di fallimento in fallimento, dando credito ai dimenticati trecentisti dell’Ottocento, agli interpreti di Dante che non hanno trovato fortuna nel mondo accademico, ai venditori online che non mettono la cultura a buon mercato. La nostalgia non c’entra niente, è piuttosto il sintomo di un disadattamento nell’orizzonte contemporaneo, una tensione verso un’età dell’oro che tale mai è stata, un ripiegamento su se stesso per non guardare in faccia il dolore che crediamo di vivere da giovani e di cui non ci resterà nemmeno una reminiscenza.

Il Seminario della gioventù di Tortorici sembra dirci che le generazioni sono costrutti mediatici, scatole vuote da riempire per non sentirci soli, e lascia che Leonardo incarni una solitudine perfetta: più disinteressato a nuovi rapporti che limpidamente misantropo, arrogante quanto basta per mettersi ai margini del discorso (il disprezzo per la prosa di Pasolini è un bell’atto di coraggio, pur sterile nei fatti), feticista di una lingua bella e morta che è chiaramente correlativo oggettivo, testimone di un’ordinata confusione identitaria che fa rima con quella dei romanzi di Edmund White.

Sotto l’egida di Luca Guadagnino, qui produttore, Tortorici guarda al particolare per proiettarsi nell’universale senza l’ansia di diventare la voce di un movimento ma bastandosi a se stesso, indovina un lessico che risuona davvero nel quotidiano e allo stesso tempo si svincola dal freddo realismo, agisce all’interno del cinema borghese (l’estrazione di Leonardo è quella, l’estate ne è il regno, ma attraversarla da lucidi è sempre più faticoso) per rivelarne gli strappi e le falle secondo la lezione (anche qui derivativa) della nouvelle vague italiana, accumula polvere e zoom, tagli e schermi (il montaggio è di Marco Costa, cresciuto all’ombra di Guadagnino ed “erede” di Walter Fasano).

Il desiderio è l’indicibile (le foto rubate di Justin Bieber, i porno amatoriali, un’apparizione in piazza che diventa ossessione, i testi di Tedua), le animazioni plasmano le immagini che si affastellano nella mente (sono di Margherita Giusti), l’osceno serve per esplorare gli squarci (l’eccitazione per la putrefazione, la morte degli innocenti, le immagini di Salò, un orrendo sconosciuto in treno) ma nulla è definitivo, l’esistenza come ammasso di false partenze e conclamati fallimenti, viatico per qualcosa che, tutto sommato, non si sa che contorni possa avere. Un inquietante romanzo di (de)formazione, un memoriale degli inciampi, uno squarcio nel cielo sopra – contro – il destino.