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Premio del pubblico nella sezione Panorama del festival di Berlino, Diaz farà discutere. Distribuisce la Fandango, anche produttrice: Domenico Procacci ha finanziato il film in piena autonomia, con l'unico apporto di due co-produzioni con Francia e Romania, perché nessuna distribuzione “istituzionale” (01 e Medusa, tanto per capirci) e nessuna televisione statale o privata hanno voluto sporcarsi le mani con un tema politicamente ancora controverso. Ha ragione Daniele Vicari quando sostiene che durante il G8 del 2001, nella scuola Diaz di Genova, c'è stata una sospensione della democrazia (per altro ampiamente denunciata da Amnesty International). Il valore civile del film non è in discussione, ma c'è paradossalmente il rischio che esso metta in ombra le qualità cinematografiche. Che sono importanti, e a volte sorprendenti. Fra le molte cose che Vicari ha dichiarato a Berlino, una ci ha particolarmente colpito. Esprimendo al regista il nostro apprezzamento per il modo efficace con il quale ha gestito e diretto le sequenze d'azione, ci siamo sentiti rispondere: “Sì, apparentemente Diaz è un action-movie, ne ha tutte le caratteristiche: cariche della polizia, irruzioni, pestaggi. Ma la struttura profonda del film è quella di un horror”. È vero: l'action-movie ha dinamiche ben precise in base alle quali la violenza deve avere una giustificazione narrativa, un'attesa, uno sviluppo logico - qualcuno attacca, qualcun altro si difende -, un'esplosione, un climax e poi un'interruzione, spesso catartica; un momento nel quale lo spettatore tira finalmente il fiato. L'horror invece è senza logica: il pericolo arriva da dove meno te lo aspetti e la violenza non ha una progressione realistica. Quella notte, i ragazzi che dormivano nella Diaz hanno vissuto un horror: sono stati attaccati all'improvviso, senza un motivo, senza nessuna provocazione se non quelle costruite ad arte dalla polizia; nessuno si aspettava la violenza, nessuno aveva la possibilità di fermarla. Difendersi era impossibile. Tutti hanno dovuto solo attendere che i poliziotti si stancassero, o smettessero di picchiare per qualche motivo del tutto irrazionale (come l'ufficiale, interpretato da Claudio Santamaria, che dice addirittura “I'm sorry” a una ragazza massacrata dalle manganellate).
Questa natura di fondo del film si fonde con una struttura narrativa che Vicari paragona a Rapina a mano armata di Kubrick: prima ci mostra il progressivo avvicinarsi alla Diaz dei vari personaggi, poi l'irruzione della polizia con relativo massacro, per tornare indietro nel tempo, mostrarci le autorità impegnate nella preparazione del blitz e arrivare poi al giorno dopo, alle torture di Bolzaneto, alle conseguenze umane e psichiche di quella notte in cui la democrazia si è fermata. Il risultato è un film potente e lucido, in cui lo spettatore viene prima schiantato dalla violenza che si dipana sullo schermo, e poi è invitato a valutarne criticamente il significato politico. Diaz è una scommessa cinematografica vinta alla grande. Forse qualche personaggio poteva avere uno sviluppo maggiore (Elio Germano sembra un po' sprecato per una figura di giornalista tutto sommato marginale), ma qui contano altre cose: la coralità, la dinamica, l'azione, la violenza e le motivazioni politiche che l'hanno provocata.