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Jasmine Trinca e Luisa Ranieri in Diamanti
Del mondo fuori c’è l’eco: le contestazioni giovanili e il femminismo, per esempio, ma anche un bambino spaesato e una carrozzella, sono solo chiavistelli per irrompere nell’unico mondo che conta. Quello del cinema, cioè la sartoria dove si creano i costumi che edificano i personaggi (un plauso al lavoro di Stefano Ciammitti), nonché la finzione subito esplicitata dall’incipit programmatico: il regista, Ferzan Özpetek, e tutto il cast attorno a una tavolata, in attesa di mangiare (topos dell’autore, d’altronde) e leggere il canovaccio di Diamanti.
Il film (nel film?) che, appunto, all’improvviso si manifesta ai nostri occhi, in medias res, con le luci calde di Gian Filippo Corticelli a sottolineare il distacco dal realismo e le parrucche a segnare il tema delle maschere più che dare l’aria del tempo.
Siamo nel 1974, certo, ma la Sartoria Canova è un mondo a parte incastonato tra muri “parlanti” (con murales ovviamente femminili) e strade senza traffico (quasi precluse a quelle auto che portano morte), un altrove che trascende la cronaca e appartiene alla mitologia, abitato da personaggi barricati nel ricordo (gli amori perduti e le figlie perse che impediscono di vivere serenamente), nella nostalgia (Mara Venier ex soubrette reinventatasi cuoca), nelle bugie a cui vogliamo credere (Anna Ferzetti che rimpiange il forse agiato compagno turco), nella reticenza (la liaison segreta di Lunetta Savino, le violenze domestiche subite da Milena Mancini), nel divismo (Carla Signoris e Kasia Smutniak che si scontrano come in un Match di Arbasino), nell’ansia da prestazione (Vanessa Scalera costumista da Oscar).
Diamanti si concentra su un mese forsennato, con la sartoria è impegnata su più fronti, in particolare nell’impresa di completare i costumi di un kolossal ambientato nel Settecento (le indicazioni della costumista sono chiare: evitare la deriva documentaristica, seguire l’istinto, ricorrere alla fantasia).
Come le eroine del film, Özpetek difende il fortino del suo immaginario: in continuità con il sottostimato Nuovo Olimpo, si dichiara cittadino del cinema, incastra la storia nella realtà e si serve degli incidenti della vita (l’intervento di Elena Sofia Ricci, che ha due apparizioni magnifiche, è un manifesto teorico), omaggia maestri (“Vuoi fare la costumista e non sai chi è Piero Tosi?”) e simulacri (l’evocazione del costume da vescovo di Roma di Fellini, opera di Danilo Donati), rimpiange quel che fu (le grandi produzioni che investivano sui costumi) e quel che resta (la camminata spettrale del finale: le scenografie sono di Deniz Gokturk Kobanbay).
E, in parallelo, si fa sacerdote di un mondo salvato dalle donne, siano esse al comando (le sorelle Luisa Ranieri, algida e severa con parrucca rossa, e Jasmine Trinca, sofferente e tormentata con tendenza alcolica, entrambe emancipatesi da un destino deludente) o pezzi di una comunità solidale (i maschi vanno disinnescati, smontati, desacralizzati e magari sessualizzati: Geppi Cucciari docet).
Reunion di affetti stabili (ci sono anche Stefano Accorsi, Paola Minaccioni, Nicole Grimaudo, Milena Vukotic, Aurora Giovinazzo, Carmine Recano, Edoardo Purgatori, Loredana Cannata) con nuovi innesti (Luca Barbarossa, Sara Bosi, Vinicio Marchioni, Giselda Volodi), Diamanti è dichiaratamente l’ennesima summa del cinema di Özpetek (così come lo erano, per vari motivi, La dea fortuna, Le fate ignoranti – La serie, Nuovo Olimpo).
E ne certifica anche lo stato: più che interrogarsi su come sia evoluta la sua concezione di melodramma (meno fiammeggiante e più melanconica), su una tendenza a privilegiare i personaggi più dell’intreccio o sulla gestione di tanto materiale umano invero piuttosto coeso (i piccoli ruoli non sono mai sprecati, tutte e tutti funzionano: menzioni d’onore alla spigolosa Scalera, alle “parche del sorriso” Cucciari, Savino e Minaccioni, alla malinconica Venier, alla vispa Vukotic, alla precisa Signoris), val la pena riflettere su come il presenzialismo dell’autore impedisca al film di trasfigurarsi completamente in quel cinema-cinema che lo stesso Özpetek difende e mette in primo piano.
Così la cornice metacinematografica e “laboratoriale” appare un po’ estemporanea se non posticcia e il finale che arriva da fuori sembra indebolire il vero epilogo interno. Che non solo è tematicamente più forte, ma anche più coerente e perfino commovente nel trasmettere etica del lavoro e sorellanza solidale. Ed è curioso che un regista così innamorato del cinema, di chi lo vive e di chi lo fa – nonché capace di trasmettere questo amore – abbia scelto di allargarsi in modo tanto smaccato, quasi non avesse del tutto fiducia del suo talento mitopoietico. Dedicato a Mariangela Melato, Virna Lisi e Monica Vitti.