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DIABOLIK_M.Leone, L.Marinelli_Photo Credit Antonello&Montesi_d_DIABOLIK_1880
Con un anno di ritardo arriva finalmente in sala (dal 16 dicembre, 01 distribution) il Diabolik dei Manetti Bros.
Liberamente ispirato al terzo albo L’arresto di Diabolik scritto da Angela e Luciana Giussani (pubblicato il 1° marzo 1963) e a L’arresto di Diabolik: il remake di Mario Gomboli e Tito Faraci (2012), il film introduce il Re del Terrore a bordo della sua Jaguar nera in fuga dalle volanti della polizia di Clerville.
Messo a segno l’ennesimo colpo, anche grazie ai suoi abili trucchi, Diabolik (Luca Marinelli) vuole ora mettere le mani sul famoso diamante rosa della affascinante ereditiera Lady Kant (Miriam Leone), arrivata in città con tutti gli onori della cronaca.
Il colpo di fulmine sarà immediato. E da quel momento il famoso e imprendibile criminale non sarà più solo. Ma l’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea) e i suoi uomini hanno trovato finalmente il modo di stanarlo. E per lui si avvicina la lama della ghigliottina…
“Non amiamo la parola sogno perché fa pensare più ad un colpo di fortuna inaspettato che a qualcosa che si è ottenuto attraverso la progettazione ed il lavoro. Ma fare il film di Diabolik è la cosa più vicina al raggiungimento di un sogno per noi. Un sogno ottenuto negli anni attraverso, appunto, il lavoro, la pianificazione e la perseveranza. Ci ricordiamo adolescenti, aspiranti filmmaker, a discutere di come avremmo fatto il film di Diabolik. La strada che a noi sembrava ovvia, e che nessuno sembrava voler intraprendere, era la fedeltà alle suggestioni e ai temi offerti da questo straordinario e amato fumetto”.
DIABOLIK - L. Marinelli, A. Manetti, M. Manetti_Photo Credit Nicole ManettiUn sogno diventato realtà, dunque, per i due fratelli registi, che dopo aver riletto il musical con Song’e Napule (2014) e Ammore e malavita (2017), si immergono anima e corpo nelle atmosfere da giallo-noir caratteristiche del personaggio e dell’universo creato dalle sorelle Giussani e dalla loro casa editrice Astorina, ora diretta da Mario Gomboli, che da oltre 30 anni attendeva le persone giuste a cui affidare l’adattamento cinematografico (dopo quello di Mario Bava del 1968, con derive pop e psichedeliche).
La confezione, il packaging, il lavoro sulle location (da Bologna a Courmayeur, passando per Milano e Trieste) per ricreare le città di Clerville e Ghenf, oltre alla località montana di Bellair, le musiche di Pivio e Aldo De Scalzi (oltre alle due canzoni inedite di Manuel Agnelli), unitamente alla palette dei colori e alla scenografia curata da Noemi Marchica, ogni cosa concorre alla ricostruzione quanto mai fedele e filologica, allo stesso tempo emotiva, che caratterizza tanto le ambientazioni quanto le sfumature dei personaggi principali del fumetto omonimo.
Una riverenza encomiabile, che finisce però per ingessare tanto il film (abbastanza noiosa la prima parte) quanto i suoi stessi interpreti, da un lato perfetti nel restituire fedelmente le fattezze e le movenze dei prototipi disegnati, dall’altro presumibilmente bloccati da un’adesione che ne limita oltremodo il respiro.
DIABOLIK_Photo Credit Davide PippoLuca Marinelli (che non sarà più Diabolik nei già annunciati, prossimi due capitoli) non tradisce mai la benché minima emozione, Valerio Mastandrea si adegua senza troppi sforzi ad indossare la maschera dell’ispettore Ginko, sempre un passo avanti rispetto ai colleghi ma sempre mezzo passo indietro rispetto alla sua nemesi: in mezzo a loro Miriam Leone è chiamata ad impersonare la figura davvero centrale dell’intera narrazione, Eva Kant, che nella trasposizione manettiana sembra ergersi maggiormente a protagonista rispetto al canonico ruolo di “compagna di”.
DIABOLIK - Miriam Leone - Photo Credit Antonello&Montesi_d_DIABOLIK_2103In fondo, come detto, funziona tutto, compresa la riproposizione di effetti e trucchi che riportano all’era analogica ormai superata tanto dalla storia quanto dal cinema: il problema è che sembra mancare il cuore, il guizzo, il marchio di fabbrica dei Manetti Bros., il sopraggiungere di un sussulto, di un’ironia infilata di tanto in tanto.
Un film freddo, avaro di emozioni (manca anche la paura, a ben vedere, elemento cardine tanto del fumetto quanto, in alcuni frammenti, della filmografia dei due fratelli Antonio e Marco), troppo perfetto, e pulito, per essere vero.