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Deserto Particular
È un cinema di esplorazioni e sconfinamenti, di scoperte e turbamenti, di ridiscussioni e pacificazioni quello di Aly Muritiba, cineasta brasiliano tanto noto e premiato in patria, quanto misconosciuto oltre l’Amazzonia. Il suo Deserto Particular – candidato verdeoro agli Oscar 2021, dopo il concorso alle veneziane Giornate degli Autori – è un campo lungo che attraversa tutto il Paese, che congiunge e disperde due solitari alla ricerca reciproca di accettazione.
Uno è il roccioso Daniel, ex poliziotto sotto processo per violenza privata e guardia del corpo in discoteca per sussistenza. Un padre affetto da demenza, una sorella con cui dividere l’accudimento, e un amore lontano per la virtuale Sara scandiscono la sua grigia quotidianità. Galeotto fu WhatsApp, al ragazzo è bastata una chat per innamorarsi: davanti all’improvviso silenzio della donna, pianta in asso il papà allettato, la sorella, il lavoro, l’incombente processo marziale per cercarla, fendendo il Brasile da Sud a Nord a bordo del suo pick-up.
Se, però, il dramma familiare cede presto al road movie con punte thriller, Deserto Particular temporeggia e non si svela. Semplicemente sterza e cambia strada – i ritardati titoli di testa, alla Drive My Car, sottolineano il nuovo incipit -, stemperando la carica tensiva in un paesaggismo di tramonti dell’arida provincia brasiliana che è estroflessione, va da sé e da titolo, dell’interiorità essiccata del protagonista.
Non solo, ma dopo la toccata e fuga tra Daniel e Sara, sterza ancora verso nuovi orizzonti di espressione, di sguardo, di senso; dall’erranza della guardia, si passa a quella della giovane Sara che intanto sveste rossetto, parrucca e tacchi: si rivela a noi e a Daniel femme fatale di notte, androgino magazziniere di giorno, attratto e intimorito dall’amore per il bruto poliziotto.
Insomma, sotto l’impalcatura sentimentale, Muritiba fa nidificare, in sordina, il suo pungolo polemico e civile. Vuole sbriciolare (dall’interno) stereotipi, gabbie costrizioni della mascolinità militare. Vuole liberare dai dogmi una sessualità anticonvenzionale che è ancora turbamento e onta nella sua rivelazione.
Tutto, però, è talmente calibrato in toni, ritmi, temi, che non c’è sovraccarico emotivo, né psicologismo o pietismo. Per di più, a riscattare qualche dialogo incartato (sceneggiatura dello stesso cineasta con Henrique Dos Santos), s’impone alla lunga una regia fatta di camera fissa e tanta discrezione. Una poetica, per così dire, del nascondimento curioso, dello studio a distanza di timori, trapassi e progressi interiori del duo, così che erompano quasi da sé, senza pedinamenti.
Tra interni bruniti e esterni assolati (fotografia di Luis Armando Arteaga), tra le praterie e il gabinetto, il cammino di Daniel e Sara prende valore solo rinnegando il proprio stereotipo di partenza (il gesso al braccio e la divisa per la guardia, il trucco per il giovane). Il transito, così, passa dalla costrizione sociale alla scelta individuale, dalla vergogna all’accettazione di sé, per aprirsi sul finale a una nuova verità particular. E alla sua liberazione.