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Denti da squalo
D’estate tutto è possibile, stagione com’è per sua natura compresa tra promessa e nostalgia (almeno così diceva la poetessa: difficile darle torto). Specie se hai tredici anni, non sei né piccolo né grande, e un lutto ti sta logorando: “Il vuoto e poi/ ti svegli e c’è/ un mondo intero/ intorno a te”, canta Edoardo Bennato (un po’ di ricerca e si azzeccano le canzoni “tematiche”) sui titoli di coda di Denti da squalo, opera prima di Davide Gentile, scritta da Valerio Cilio e Gianluca Leoncini.
Racconto di formazione per vocazione, con un protagonista che è il film stesso: Walter, tredici anni che sono troppo pochi per sopportare la morte del padre, caduto in un depuratore per salvare un collega. Non basta il mare per annegare il dolore (nemmeno quello di sua madre, che però ce la mette tutta), quel mare che prima si vedeva dal suo quartiere ora divorato dalla speculazione edilizia, e che appare all’inizio come epitome dell’estate. Walter cerca qualcosa, un appiglio per aggrapparsi a una vita che gli sta voltando la spalla: in sella alla bicicletta fugge da una casa piena di ricordi da inscatolare e finisce in una villa semiabbandonata, con una piscina abitata da uno squalo.
È pieno di simboli, allegorie, allusioni, Denti da squalo, a partire dalla scelta di un animale che mette in connessione l’immaginario cinematografico più scoperto (serve citarlo?) con l’orizzonte fiabesco (il castello, il drago, la magia), convoca la metafora della cattività e scontorna la peculiarità della cattiveria.
Lo sguardo elettivo è quello del protagonista: affamato di avventure fuori dall’ordinario (l’incontro con la bestia da domare, sfidare, salvare), desideroso di crescere al più presto (nonostante i moniti della mamma, che riconosce in lui i germi paterni), disperatamente bisognoso di riappropriarsi di un passato (che è una “storia sbagliata”, che lui stesso ha contribuito a far deviare verso altri lidi) per costruire un futuro (il romanzo di formazione criminale con personaggi tanto ridicoli quanto pericolosi).
Tiziano Menichelli, al debutto, è strepitoso nel dar vita a un ragazzino schivo e risoluto, malinconico e idealista, un randagio che si sente già uno spatriato, e scandaglia con acume e intelligenza ciò che avviene nella zona d’ombra tra infanzia e adolescenza, famiglia e branco, fiducia e ribellione (“Chi ti risponde/ ti dice: è presto/ quando sarai grande/ allora saprai tutto…” per tornare a Bennato). Ma tutto il cast funziona: l’esordiente Stefano Rosci, Virginia Raffaele, i cammei di Edoardo Pesce e Claudio Santamaria.
È raro che il cinema italiano si dedichi a un racconto del genere e non è un caso che la costellazione di riferimenti – oltre al repertorio americano, da Mark Twain a Steven Spielberg – debba rifarsi ad altri medium, in primis i giovani incompleti di Italo Calvino. E non è un caso che dietro Denti da squalo ci sia Gabriele Mainetti (accreditato anche come produttore artistico nonché autore della colonna sonora con Michele Braga) tramite la sua Goon Film, impegnato com’è a leggere la realtà attraverso la lente del ripensamento fantastico.
Ma è miope ridurre Gentile ad emanazione del regista di Lo chiamavano Jeeg Robot: la favola tende più alla concretezza che al fantastico, il “meraviglioso” si riverbera in qualcosa di tangibile (le scatole, i maritozzi, perfino il furgone dei traslochi), il reale resta punto di caduta. Con un finale da grande racconto di formazione: “È tutto scritto/ catalogato/ ogni segreto/ ogni peccato”.