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Ogni opera ha il suo fool, il buffone di corte che usa il metodo della follia per rivelare verità precluse agli eroi, e non fa eccezione il regno del Marvel Cinematic Universe, che ha trovato in Deadpool quella figura divergente in grado di abbassare il tono, scardinare mitologie, portare in dote l’umorismo scatologico. Va da sé che, al di là delle apparenze, anche un personaggio così fuori dagli schemi del genere lavora dentro il sistema industriale, alimentando il brand con un’autoironia tanto sfacciata quanto, in fondo, innocua.
Perché, sì, d’accordo, è sempre piuttosto curioso assistere a un intrattenimento per famiglie in cui si parla apertamente – e, al contempo, depotenziandone l’aspetto perturbante proprio per le caratteristiche del supereroe – di masturbazione, fellatio, cocaina, abilismo e si adotta un lessico pieno di parolacce e volgarità. E se è vero che Deadpool non deve salvare il mondo – almeno così sostengono tutti, con suo sommo cruccio: non lo vogliono né gli Avengers né gli X-Men, ma gli restano gli amici eccentrici e senza superpoteri da proteggere – quindi può concedersi il lusso di non essere un eroe, è altrettanto vero che la sua vicinanza rende scurrili anche i più seriosi della compagnia, per esempio Wolverine.
Ma la cosa più interessante di Deadpool & Wolverine, ennesimo (trentaquattresimo in sedici anni) capitolo del MCU, non sta nel sarcasmo e nel dileggio. Sì, va bene, c’è un certo grado di consapevolezza da non confondere né con l’autocritica né con l’autoparodia: citare l’episodio della serie Loki necessario per capire un determinato passaggio non vuol dire disapprovare l’espansionismo senza limiti dell’universo narrativo ma nutrirsene; tirare in ballo l’acquisizione della 20th Century Fox da parte della major Disney, dal logo sprofondato nel vuoto (letteralmente) alla gestione del franchise X-Men, indica una sfumatura di brandservice (tant’è che i titoli di coda sono un omaggio al passato); le battute sulla prigionia dei ruoli (“Ti faranno fare Wolverine fino a novant’anni” predice Deadpool, cioè Ryan Reynolds anche sceneggiatore al redivivo Hugh Jackman, di cui viene menzionato il divorzio reale) e sui cachet delle star pure per un cameo sono inoffensive, così com’è superficialmente nostalgico il recupero dei supereroi dimenticati per flop commerciali (Jennifer Garner come Elektra e Wesley Snipes aka Blade, Chris Evans che si riscopre Johnny Storm).
No, la cosa più interessante ha a che fare sì con la funzione del fool, ma è un tema industriale: in sintesi, tra battutine e commentini dei protagonisti stessi, Deadpool & Wolverine ci dice che questa faccenda del multiverso sta diventando un problema, che questo infinito dilatare e moltiplicare mondi richiede attenzione, che il pubblico (Deadpool ne è un portavoce insolente) potrebbe perdersi e, a un certo punto, stancarsi di un media franchise a tratti ingestibile. È una riflessione che il film di Shawn Levy (sodale di Reynolds che crede nella commedia) si concede nella parte finale, senza incaricandosene fino in fondo poiché – e ci mancherebbe – le regole impongono di pagare dazio ai doveri della casa (salvare il mondo da un’antagonista che sta messa come sta messa perché vittima del passato).
Deadpool & Wolverine è sicuramente divertente nel susseguirsi di combattimenti coreografici e davvero fumettistici, nell’avvalersi di un lessico sentimentale che dallo schema dell’amicizia tra due opposti sconfina nel concetto molto social di “aura” (i maschi attratti dai maschi che non ammettono pulsioni omoerotiche), nel ricorrere a un immaginario pop che va dalle allusioni alle faccette di Reynolds in Ricatto d’amore alla colonna sonora che comprende tra gli altri Green Day, Avril Lavigne, AC DC e soprattutto Madonna con Like a Prayer. Ma non può fare a meno del sistema e nel picconarlo con affetto finisce per celebrarlo con devozione: quel finale (spoiler, per quel che vale) in cui i supereroi si riappropriano di una vita normale e mettono da parte le maschere non suggella il discorso metatestuale e critico ma sembra sottolineare la consapevolezza che un film del genere, che si prende libertà esplicite, è solo una parentesi bizzarra all’interno di un apparato troppo grande per sentirsi messo in discussione.