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Il territorio selvaggio dello Yukon, Canada, cinquecento film dei primordi del cinema (dall’inizio del Novecento sino agli anni Venti) e la cittadina di Dawson City che, in un’epoca ormai fissata nel Mito, fu tra i crocevia della corsa all’oro. Il regista Bill Morrison racconta la storia di pellicole perdute, spedite in quel lontano angolo di mondo per allietare le serate dei cercatori d’oro, e destinate all’oblio dei ghiacci una volta terminato il ciclo di proiezione.
Metafora di una memoria immarcescibile, che attende paziente sotto la terra una mano curiosa che la riporti alla luce - nel caso presente, gli scavi alla fine dei Settanta che riscoprono l’immensa mole di pellicole e, dunque, di opere considerate disperse per più di cinquant’anni - a perenne monito di una verità paradossale: il fuoco della furia umana può uccidere la memoria (quante scene di film riusciamo a ricordare in cui una pellicola prende fuoco?), laddove la natura, il ghiaccio, in sostanza la quiete imperturbabile del cosmo, posseggono il dono della preservazione.
L’aura mistica di questo doc sui generis, se ancora non bastasse, è esaltata dalle musiche atmosferiche di Alex Somers (valgono il prezzo del biglietto, se non altro). La visione è ostica, lunga, costruita quasi esclusivamente, com’era lecito attendersi, intessendo una complessa trama di spezzoni, scene e sequenze dei film muti perduti e ritrovati, di cinegiornali d’epoca, di fotografie d’altri tempi. L’amore per il cinema, e per la storia (e la cultura mitologica) pan-americana, è salvo: l’archeologia del sapere ha qui pane a volontà per i suoi adepti.