“Sembra una mini assemblea delle Nazioni Unite” si dice parlando delle cheerleader dei Dallas Cowboys in Daughters of the Sexual Revolution. E il documentario di Dana Adam Shapiro usa proprio la storia “mai raccontata” (come dice il sottotitolo) di questo gruppo come microcosmo per guardare all’evoluzione sessuale degli Stati Uniti durante 20 anni.

 

Più precisamente nel periodo in cui Suzanne Mitchell diresse le cheerleader della squadra di football texana rendendole un incredibile fenomeno mediatico: Mitchell - scomparsa nel 2016 a 73 anni - e le “meravigliose ragazze di Dallas” (come s’intitola un film a loro dedicato nel ’79) si raccontano e raccontano la costruzione di un mito che è anche una riflessione sul rapporto tra sport, sesso e media nella cultura americana.

 

Shapiro si pone in una posizione obliqua tanto rispetto alla celebrazione quanto verso la demistificazione perché il suo obiettivo è cercare di capire come, in uno degli stati più credenti e bigotti d’America, sia stata possibile un’espressione di libertà di costume così sfacciata, ma anche come la giostra del mondo dello spettacolo - televisivo, giornalistico eccetera - si sia mosso attorno a questa espressione. Si sente forse che il regista è un uomo, capace di mettere in crisi l’istituzione (il militarismo, la paure, la rigidità delle regole sociali e alimentari) ma non il sistema maschilista di sguardo e potere economico su cui è fondata, facendo delle cheerleader un terreno ambiguo di integrazione e liberazione, di relativa indipendenza dal potere dei maschi.

 

Eppure, ciò che colpisce e che in un certo senso conta maggiormente in Daughters of the Sexual Revolution è la capacità narrativa di cogliere dettagli e attimi (il mitico occhiolino di Gwenda Swearingen al SuperBowl del ’75), di raccontare un personaggio sorprendente in modo avvincente facendo sorgere imprevisti echi con l’attualità, come nel finale l’arrivo del nuovo proprietario, Jerry Jones, che ricorda da vicino i comportamenti di Donald Trump con una trentina d’anni di anticipo. Facendo del documentario in senso classico un luogo in cui riflettere sul presente affinando sempre più l’arte del racconto.