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Daliland di Mary Harron
Come si racconta un genio? Come ci si accosta alla poliforme, allucinata, torrenziale, estatica vita di Salvador Dalí? Si può separare l’uomo dalla Storia? Il privato dal pubblico? L’intimità dalla fama?
Mary Harron, professionista in biografie di uomini carismatici (La scandalosa vita di Bettie Page, Charlie Says ma anche American Psycho), parte da questi, eterni dilemmi per affrescare il suo Daliland. Ma le premesse, sui titoli di coda, rimangono tali.
Perché l’artificio narrativo, benché accorto, è reiterato: non esplorare l’universo Dalì con Dalì, ma con gli occhi di un novellino ammesso al suo mondo patinato (via Il grande Gatsby, vero ipotesto di tutto il film). L’impalcatura, poi, si rivela fragile e monocorde, in troppe scene il ritmo latita, lo scavo nell’interiorità rimane superficiale perché macchiettistico, i personaggi poco sfumati, l’affresco storico artificioso e laccato. L’estro irripetibile del protagonista, così, finisce pian piano sotterrato dai suoi mille ghiribizzi e piagnistei. Che è una verità sicuramente storica, drammaturgica forse meno.
Dalì secondo Harron, così, è un creativo ammalinconito che usa il suo fulgido passato per dimenticarsi di aver imboccato il viale del tramonto. Lo scorcio finale della vita dell’artista spagnolo, infatti, è allacciato ai flashback della sua giovinezza surrealista anni Venti. Impastando cinema e immagini di repertorio, Harren ci porta nella New York anni Settanta: qui l’avvenente, giovane James (Christopher Briney) entra nelle grazie di Dalì, che ha appena fatto del Ritz Hotel il suo buen retiro americano.
Ed è subito gioia e incontri ravvicinati del bellissimo tipo. Tra feste e festini, dame e cantanti, esposizioni d’arte, cambiali e tormenti ispiratori, il ragazzo diventa testimone meravigliato e irretito del crepuscolo del suo dio: Ben Kingsley incarna un Dalí braccato dagli anni e dalla vena artistica inaridita. Voyeurista e mitomane, giovanilista e festaiolo, angosciato dal fantasma della morte – che serpeggia nel suo corpo nelle fattezze del Parkinson - come dalla proterva, poliamorosa, sfuggente Gala (Barbara Sukowa). Moglie, madre, amante e tesoriera, pronta a richiamarlo al dovere ogni volta che Salvador preferisce la vita gaudente a tele e pennelli.
Ma l’accanimento centripeto della scrittura (Jhon Wlash), così meticolosa in entrambi i piani temporali nel restituirci minime manie, attitudini, effusioni di Dalí con un afflato troppo devozionale, fa scomparire lentamente, inesorabilmente il portato storico, testamentario, ma anche corale della biografia.
Lustrini, gossip, capricci e pillole. E poi continue microscopie delle scornate sentimentali ora infantili, ora isteriche, ora tragiche tra Gala e Dalí. C’è poco altro – oltre la notevole prova attoriale di Kingsley - nel Dalí secondo Harron, nonostante lo sguardo riflesso delle intenzioni, serva proprio a slargare la biografia, a non renderla asfissiante. Così, tutti i personaggi secondari che pure avrebbero spessore e dignità drammaturgica (da Amanda Lear a un Jeffrey Fenholt in versione Jesus Christ Superstar), diventano pallide cartine di tornasole accecate dai raggi del divo.
Al di là e nonostante ciò, però, Harron rilucida i temi cardine di tutte biografie artistiche: i ritmi dell’industria culturale che soffocano l’estro creativo, la dolce vita festaiola sotto cui si nasconde un misto di angoscia, nichilismo e vanità e l’accesso (sacrale) per un giovane a questo mondo come inizio della sua fine. E di quello stesso mondo.