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Dahomey di Mati Diop
Ritorno in Africa. Mati Diop, nipote di uno dei padri del cinema africano Djibril Diop Mambety e rappresentante di un cinema della diaspora che già con Atlantics (Grand Prix di Cannes 2019) s’era interrogata sul rapporto tra le due sponde della rotta Africa/Europa attraverso il filtro del fantastico, segue il viaggio a ritroso di ventisei sculture del Regno di Dahomey portate in Francia dalle truppe coloniali nel 1892 e restituite nel 2021 all’attuale Repubblica del Benin.
E la cifra fantastica attraversa pure il primo movimento di questo documentario premiato con l’Orso d’Oro della Berlinale 2024. Allorché emergono dai sotterranei dei musei francesi in cui sono preservate, per essere accuratamente imballate e spedite alle terre d’origine, le opere del tesoro reale di Dahomey risorgono alla vita come da una cripta, attraverso uno sguardo della macchina da presa che le ammanta di una dimensione quasi mistica e sacrale.
Una voce cavernosa e carismatica, che fluttua con la nonchalance di un griot (i cantori itineranti dell’Africa occidentali) tra toni epici, lirici e ironici, accompagna il loro ritorno, in un sortilegio cinematografico orchestrato dall’elaborata combinazione del sonoro con l’accompagnamento delle affascinanti musiche di Wally Badarou e Dean Blunt. La voce è probabilmente quella di Re Gezo, sovrano raffigurato in una delle statue sulla rotta del ritorno e si esprime nella lingua del suo antico regno, il fon.
Una volta che le sculture hanno attraversato i flutti dell’oceano che le aveva viste trafugate e hanno raggiunto nuovamente l’Africa, Mati Diop si concentra sulla loro “accoglienza” nella terra d’origine, a più di cent’anni dalla loro partenza. E se la voce di Re Gezo è quella di un passato ‘rubato’, intriso di mito e intangibile meraviglia, dal presente del Benin si leva la polifonia plurale e sorprendente di un lungo e stimolante dibattito tra studenti universitari.
Il registro di Dahomey si adatta all’osservazione e all’ascolto e qui, lo stupore è ingenerato (giustamente) dalla profondità e dalla positiva provocatorietà delle opinioni degli studenti. In quel dibattito sulla restituzione degli artefatti, Mati Diop ci offre un prezioso controcampo sulla spinosa questione post-coloniale attraverso le molte domande e contraddizioni sollevate dagli studenti. Le questioni della memoria, del presente e dell’identità hanno per questi giovani una bruciante rilevanza che non ha nulla di pigramente accademico o di programmatico politicamente corretto. E non è un caso che una delle constatazioni più pregnanti e dolorose venga da una studentessa che articola il paradosso di una conversazione post-coloniale veicolata attraverso la lingua del colonizzatore.
Dahomey è un lavoro d’ingannevole semplicità: come in un trompe-l’œil, la prima percezione può far pensare ad un’opera banalmente discorsiva; a più attenta osservazione, si comprende che la sua forma e la sua concettualizzazione hanno un’organicità dialettica che coniuga il linguaggio del cinema e le sue potenzialità con una profonda aderenza al soggetto e alle molteplici sfumature poetiche e politiche che può veicolare.
Mati Diop ci aiuta a comprendere che questo prisma o caleidoscopio della non riconciliata e non riconciliabile conversazione post-coloniale, declinato in vivido e vitale linguaggio di cinema, deve interessare in maniera critica entrambe la parti in gioco. Altrimenti, i tesori di Dahomey si riducono a sculture lignee intrappolate in una teca, che siano in Francia o in Benin.