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Stephàne, fotografo di moda, va in crisi dopo la morte della moglie: decide allora di rinchiudersi nella sua casa in periferia insieme alla figlia, usandola come modella per i suoi complicati dagherrotipi. La loro vita sarà però sconvolta dall’arrivo del nuovo assistente dell’artista, che rievocherà -pur se inconsapevolmente- fantasmi del passato e sensi di colpa. Dice Emile Zola che “non si può pretendere di aver visto realmente qualcosa prima di averlo fotografato”: sembra pensarla così Kurosawa, regista bulimico e sempre più weird con il suo Daguerrotype presentato al 34^ TFF. Non è certo un caso se il suo protagonista crea ossessivamente, ostinatamente “dagherrotipi” e non foto, così come non è per caso se il film si apre alludendo al meccanismo della riproduzione fotografica.
La foto, il cinema, la riproduzione artistica insomma, devono ontologicamente venire a patti con la loro essenza più teoretica, ovvero quella di essere simbolo e poi metafora della volontà umana dell’immortalità raggiunta attraverso l’imbalsamazione del tempo, la sua cristallizzazione, la sua permanenza eterna su un supporto riproducibile. Stephàne fa dagherrotipi, e non foto: insegue il progetto - il fantasma - di riprodurre esattamente le prime foto degli albori della tecnica, ma per farlo il tempo di esposizione del macchinario si dilunga a dismisura, arrivando a 120’. In questo frangente la modella deve restare immobile, la sua vita deve fermarsi (è quello che Stephàne chiede espressamente alla modella), per poter catturare una parte della sua più intima essenza -fantasmatica- senza possibilità che questa però possa essere riprodotta, ma cercando in tutti i modi di restituire tracce di realtà. Di verità. Di vita. È così che il dagherrotipo di Kurosawa diventa simulacro vivo in un tempo, il nostro, dove le immagini (digitali) si vincolano da ogni referente con la realtà.
In tutto questo, Kurosawa aggiunge e frulla insieme -i fantasmi di- Edgar Allan Poe, Roger Corman, Mario Bava, l’horror gotico: e restituisce un’opera sontuosa, che vola insieme ai drappi agitati dal vento nella casa castello dei protagonisti, mentre loro stessi vivono estenuanti rapporti interpersonali che si interrompono e si riallacciano come incessanti, estenuanti cortocircuiti emozionali. Stephàne, Marie, Jean, sono i protagonisti insieme a tutti i fantasmi, a tutte le ombre, a tutti i volti rubati e immortalati su lastra; e tutto diventa personale, il lavoro diventa amore, l’amore diventa morte, tutti si insegue in un incessante gioco delle coppie.
Daguerrotype straborda fuori dai confini dei canoni di genere, passa dal thriller al noir, dal melò al dramma, dalla ghost story alla tragedia; e tutta la storia si popola di spettri (esistenziali e reali), fantasmi, rumori, ombre, echi dal passato e dal futuro che vogliono correggere il presente; con una messa in scena impeccabile, Kurosawa fonde cinema antico, moderno e postmoderno, raccordando la struttura della sua storia con frammenti di arte e cinema, rincorrendo Chabrol e Truffaut, sbilanciandosi in angoli bui o porte scricchiolanti, esplodendo di luce accecante davanti al fantasma in ralenty. Sembra un magma, e lo è: ma emotivo, impervio e bellissimo, frastagliato, oscuro, discontinuo. Ma che erutta in inquadrature splendide, in una morale “incomprensibile” che sembra volersi fissare sulle tavole elettrolitiche, e che alla fine riesce a trovare il fremito della vita nello scarto fra immagine e immaginario. Capolavoro.