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Cyrano, mon amour, di Alexis Michalik, è la storia di come e perché fu scritta la più celebre opera teatrale della storia della Francia. Non sorprende che, in Italia, il titolo sia tanto didascalico mentre, in madrepatria, sia solo “Edmond”, dal nome di Rostand, autore immortale del Cyrano de Bergerac.
Peccato che all’inizio della pellicola, Edmond Rostand sia solo un poeta sull’orlo del fallimento, respinto da un pubblico che, a teatro, mal sopporta le sue prolisse opere in versi. Soltanto sua moglie riconosce ancora, sepolto da qualche parte, il talento dello scrittore predestinato. Ma stroncatura dopo stroncatura, con due figli e una vita a Parigi da mantenere, il talento non basta più.
È così che l’autore finisce per accettare la missione rocambolesca di scrivere un’opera per Monsieur Coquelin (il primo interprete del Cyrano), in sole tre settimane e senza alcuna ispirazione.
L’ispirazione arriverà, certo, nella forma angelica di Jeanne, una donna che non conosce il volto ma sospira il nome di Rostand: impazzisce per i suoi versi, adora la sua poetica e farebbe di tutto pur di incontrarlo.
Il destino, secondo un’interpretazione molto narrativa, ma divertita e divertente, scherza legando i due con un fil rouge di desiderio inespresso, inestricabilmente impigliato nel reale.
Lo scrittore ama ancora sua moglie, ma questa non crede più in lui, e solo Jeanne sembra dargli la forza di scrivere il Cyrano. I lavori di quest’ultimo, intanto, procedono a malapena, tra un inciampo casuale e un compromesso forzato.
Come fare a sottrarsi alla tentazione, quando è l’unica cosa che muove la tua penna? Specie se si è all’ultima occasione di ottenere successo e memoria imperitura. Cos’è, in fondo, a ispirare uno scrittore?
La commedia, va detto, ricorre a piene mani dal genere biografico-artistico (Shakespeare in love su tutti, ma anche Becoming Jane, Saving Mr. Banks e così via), secondo cui la vita del tale autore è fonte spontanea e decisiva nel concepire le più grandi opere del nostro immaginario (Romeo e Giulietta, Orgoglio e Pregiudizio, Mary Poppins).
Si tratta di un’evidente forzatura, ma giocata con sufficiente eleganza da non pesare, persino nel prendersi qualche licenza storica importante. Si capisce che l’obiettivo del regista non è documentaristico, ma di intrattenimento. E intrattiene con successo.
L’ironia, come la tensione in un grande film action, non cala mai, sostenuta da un cast variopinto e azzeccato. Emoziona e fa sorridere vedere fino a che punto il Rostand di Michalik si troverà nei panni improvvisati del suo stesso Cyrano, prim’ancora che questo nascesse.
Il tutto, ovviamente, fino all’esplosiva conclusione, la prima rappresentazione, che segnerà un punto di svolta nella storia del teatro nazionale e mondiale. A questo punto, la regia centra l’ennesima intuizione: tanta è l’immersione del pubblico diegetico (nel teatro del 1897) e extradiegetico (noi al cinema oggi) che la scena teatrale si trasforma in un film nel film, per l’ultimo commovente atto.
Non importa che l’epilogo faciliti un po’ troppo lo scioglimento del conflitto. La magia del Cyrano ha fatto il suo corso, di nuovo e per la prima volta. Applausi a scena aperta.