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La quarantesima volta dietro la macchina da presa, lungometraggi, del novantunenne Clint Eastwood ha titolo quanto mai incardinato nelle ragioni del suo cinema ultimo scorso, diciamo dal 2000 in poi, e del tempo che stiamo (soprav)vivendo: Cry Macho.
Eppure, e qui sta ancora una volta la natura complessa della sua semplicità, il libro da cui attinge, Cry Macho di N. Richard Nash, qui sceneggiatore, è del 1975: fare del passato presente è proprio la cifra poetica del film, in bilico tra summa e memento, lezione e congedo con chiaro voltaggio autobiografico e metacinematografico.
Ritorno a casa, predica non geograficamente, il sottotitolo italiano, e a volerlo giustificare dovremmo volgerci al genere d’appartenenza, il western, hortus (non) conclusus del Nostro, battezzato da Sergio Leone (la Trilogia del Dollaro), cresciuto per conto terzi ((L’uomo dalla cravatta di cuoio, Impiccalo più in alto) e maturato da autarchico, da Lo straniero senza nome (1973) a Gli spietati (1992).
Non crepuscolare, solo senile, questo western è sui generis, di più, eterodosso, ancor più, dialettico e confliggente rispetto ai topoi di riferimento: l’ex stella del rodeo, ci ha rimesso la schiena, è diventato allevatore di cavalli, alla bisogna veterinario, e dopo l’orticoltore del gemello The Mule – Il corriere (2018) non può sorprendere, solo ribadire l’intenzionale decostruzione, la volontaria demitizzazione dell’ex uomo senza nome. Qui si chiama Mike, Mike Milo, e accetta l’incarico dell’ex boss di riportargli a casa il figlio, Rafo (Eduardo Minett), dal Messico: il coming to age si instraderà sul coming home, per vie secondarie e incontri fortuiti alla volta del Texas, tra autostop sentimentale e riscatto esistenziale.
Una bella vedova messicana per l’ultimo ballo, un gallo di nome Macho per terzo (in)comodo, l’(auto)ironia per compagna, lo slapstick per antidoto alla violenza, insomma, del western duro e puro, del western eastwoodiano c’è poco, ovvero il contrario di tutto: l’educazione sentimentale anziché marziale, la fragilità e la sofferenza di un corpo nonuagenario in guisa degli antichi ardori marziali, la paternità culturale al posto del primato del sangue, sparso o trasmesso.
Una nuova terra promessa, che non è più l’avito Texas, bensì lo straniero Messico, dove il caro vecchio Clint può appendere il cinturone al chiodo, ma non ancora la macchina da presa: una camera, la sua, con vista sul proprio passato e sul nostro presente, ché “questa cosa del macho è sopravvalutata” e i sentimenti buoni di necessità e per virtù.
Ah, e che Cry Macho, in anteprima al 39° Torino Film Festival e dal 2 dicembre in sala, sia l’ultima di Eastwood è tutto, letteralmente, da vedere. Buena suerte, Clint.