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Rocky. Il campione della working class, della New Hollywood. L’immagine di un’America che si rialza. Dopo una corsa selvaggia sulla scalinata del Philadelphia Museum of Art, sulle indimenticabili note di Bill Conti. Il pugno alzato verso il cielo, l’inizio di un’epoca. 1976-2019. Quarantatré anni di un mito.
Oggi è diventato un allenatore, un guerriero “in pensione” che si prende cura del suo pupillo. Sul ring sale Adonis, il figlio di Apollo Creed. Passaggio di consegne, la vecchia generazione che cede il passo alla nuova. Soprattutto in Creed II, lo specchio di Rocky IV. Dalla Russia con amore, il ritorno di Ivan Drago, del suo intramontabile: “Ti spiezzo in due”. Ma questa volta non è una “semplice” macchina da guerra. Ha un lato umano, forse tenero, sente il peso delle responsabilità, rifiuta la Russia che celebra solo i vincitori, condannando i perdenti all’oblio.
Dall’altra parte il capitalismo, il sistema acchiappasoldi dello spettacolo, con le provocazioni in tv che si inseguono, gli incontri da milioni di dollari, la disciplina che passa quasi in secondo piano. Una rinnovata Guerra Fredda, con un occhio al politicamente corretto. “Adriana” non è una donna di casa da chiamare a raccogliere i pezzi, ma accompagna il suo eroe anche prima della battaglia. E poi l’epica, il suono del gong, gli uomini mandati al macello.
È un cinema di corpi costretti in pochi metri, che sanguinano, si massacrano, scaricano in quel quadrato tutti i loro traumi. Il fascino della boxe sullo schermo. Nessuno sport restituisce le stesse emozioni, richiama con nostalgia cinefila il dolore di Stasera ho vinto anch’io e l’impossibilità di comunicare di Città amara (capolavoro).
Creed contro Drago, ieri come oggi. Istantanea di una storia che si ripete, di un effetto da brivido, tutto racchiuso in uno sguardo, in pochi secondi. Rocky guarda Ivan, Ivan guarda Rocky, come due antichi rivali che hanno scoperto di non essere invincibili. Due padri, preoccupati per i loro ragazzi che si stanno pestando sul ring, due colossi, ormai nell’ombra. Spazio alle leve più fresche, mentre le glorie di un tempo hanno deposto “le armi”.
Fa quasi tenerezza vedere Balboa che non riesce a farsi aggiustare il lampione davanti a casa, o che si appisola nel corridoio di un ospedale. La fine di un mito, un immaginario che prende forme moderne, con un’anima crepuscolare. E pensare che, nel 1985, “lo Stallone italiano” andava ad allenarsi in un fienile in mezzo alla neve, mentre John Cafferty cantava Heart’s On Fire.
Oggi Adonis si ritira nel deserto, quasi richiamando una metafora biblica, per il bisogno di capire che cosa lo spinge a infilarsi i guantoni, per la necessità di ritrovare se stesso. Combattere. Per la famiglia, per l’onore, per avere un posto nel mondo. Perché Rocky è ancora vivo e lotta insieme a noi. Perché Rocky è leggenda.