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Cosmopolis
Un tempo sulle pergamane venivano vergate parole e le parole, come le pergamene, non erano a disposizione di tutti.Prodotta con pelli di pecora, di capra o di vitello, la pergamena richiedeva una lavorazione complessa, era fatta di materia viva, aveva un odore forte, ancora riconducibile all'animale che era in origine e alle proprietà organolettiche del suo sacrificio. Perciò l'utilizzo della pergamena era un fatto raro. Perciò su di essa venivano scritte parole importanti, spesso ispirate da Dio. Parole che erano segni sacri.Poi arrivò il papiro che era meno pregiato e meno costoso, e poi la carta, ancora meno pregiata del papiro, e infine i software per la scrittura, che sono solo combinazioni alfanumeriche e non sono nemmeno più tangibili. E il destino della parola sembra aver seguito il medesimo deprezzamento. La parola è diventata bit, unità d'informazione. Una sequenza di 0 e 1, la possibilità tra due eventi equiprobabili. Ma che significa?
Facciamo questa lunga, tediosa, premessa, perché è da qui che parte il nuovo film di Cronenberg. Ed è qui che finisce. I titoli di testa scorrono su una pergamena dove non si riversano più parole ma gocce d'inchiostro, macchie disordinate e inintellegibili. Ed è una specie di ouverture astratta che condensa in sè tutto il senso - o faremmo meglio a dire il nonsense - dell'operazione pensata dal regista canadese. Cosmopolis si rivela come il punto di non ritorno, la zona morta, della sua lunga e straordinaria carriera.
Un esito che probabilmente farà storcere il naso ai fedelissimi dell'Autore prima maniera e del suo cinema viscere e pancia, quando invece si tratta probabilmente di una naturale, terrificante evoluzione. Il frutto di uno stesso metodo. Dangerous, certamente. Ma almeno onesto.
E il riferimento al titolo precedente - per molti spiazzante, per altri semplicemente deludente - non è casuale: è allora che il suo lavoro ha manifestato i primi segnali di apparente discontinuità: una messa in scena iper-controllata, ai limiti dell'astrazione; una pulizia formale e una recitazione distaccata e straniante, neanche fossimo a teatro;quell'uso/abuso di parole e di interminabili strisce di dialogo e sequenze letterarie. Quel procedimento che allora apparve ai più un passo falso, un passo indietro - chiamatelo come vi pare - era invece un ulteriore salto poetico: dopo aver indagato, riflettuto, inquadrato, ogni tipo di mutazione corporale, carnale, ancora umana, Cronenberg ha deciso che l'ultima metamorfosi possibile era oltre la devastazione dei corpi, della carne e - se ancora oggi questo termine può avere un senso - dell'umano. Il nuovo mutante è anzi esteticamente piacevole, curato, elegante. Quanto di più vicino a un bell'esemplare di essere umano vivo. Solo che non lo è, o non lo è più. Intuendo la radicale provocazione lanciata da De Lillo nel suo Cosmopolis - che a sua volta non identifica New York e non è forse nemmeno una città ma il simulacro metonimico di ogni possibile città del mondo post-capitalistico - Cronenberg dipinge un'umanità che sembra venuta fuori da un'opera di Rotko (citato nel film): totalmente anaffettiva e lontana, bidimensionale e fredda.
Eric Packer, il protagonista, un giovane miliardario che si è arricchito con la speculazione finanziaria - altra materia da romanzo astratto: che cos'è? Che significa? Che scambia? Che produce? - non agisce ma parla e parla e parla. Il suo viaggio in limousine - una macchina/sarcofago dotata di ogni equipaggiamento tecnologico - è un itinerario immobile. Non procede. Vuoi perché c'è sempre qualcosa che ne blocca il cammino (i manifestanti che mettono a ferro e fuoco la città, i posti di blocco per la visita del Presidente, le fermate imposte dal passeggero per parlare ora con la moglie/zombie, ora con il suo personal trainer teorico, ora con un suo consulente finanziario, etc...), vuoi perchè questo stesso on the road, per come è stato concepito, è un viaggio al termine di ogni significazione. D'altra parte vuole attraversare la città solo per aggiustare il taglio di capelli.
C'è sempre qualcosa di orribilmente assurdo e terrificante e farsesco e tragico nel modo in cui Cronenberg immagina la via crucis di Eric verso quella che sembra (ma non è) una presa di coscienza: avvertiamo una ticchettante afasia di tono, come se non ci potesse essere più nemmeno un tono per raccontare una storia. E' indifferente. E, d'altra parte, quale storia racconta Cosmopolis? La progressione drammaturgica è solo apparente. Tutte le volte che Eric vuol prendere una decisione, agire, non può. Le sue sono azioni monche. Non taglierà (se non una parte) i capelli e non farà sesso con la moglie. D'altra parte il sesso stesso è diventato scambio di quelle informazioni che sono i corpi, spie di elementari bisogni fisiologici (è la stessa moglie di Eric a definire il corpo del marito un veicolo informativo, quando gli fa notare che "emette odore di sesso").
Restano le speculazioni, parole e parole, che escono dalla bocca ed entrano nelle orecchie senza provocare più nulla. Senza dire più nulla.E' programmaticamente verboso l'ultimo Cronenberg, perché il limite del parossismo verbale è il silenzio, il segno che non rimanda più a nulla se non a se stesso. E' qui che si può scorgere l'ultima mutazione possibile, la perdita della presenza reale in un'umanita disincarnata, già post.Dentro un veicolo che sembra una sala di regia, dove è possibile rivedere tutto (che tanto non c'è più nulla di originale da vedere, nulla che non sia già accaduto, ri-preso), controllare tutto e schermare tutto ciò che avviene là fuori, Cronenberg si siede assieme al suo Pattinson (perfetto nella sua faccia da stoccafisso, incapace di esprimere una qualsiasi reazione che provenga dall'interno) per guidarci verso l'ultimo giro di boa del Capitale, oltre il quale non c'è più violenza (richiederebbe un motivo), non c'è più morte e probabilmente non c'è più cinema. Ma solo un bel Niente.