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Gabriel Rosas in Corresponsal
Le voci dei desaparecidos non smettono di perseguitare i sopravvissuti. Parenti, aguzzini ed eredi sputati fuori dal buco nero della storia. E lì, di nuovo, fatalmente attratti. Non esiste cinema argentino dopo l’esperienza della dittatura militare che non sia anche faticoso processo post-trauma. La ferita continua a sanguinare, il lavoro di cucitura prosegue inesausto, nella prassi di vecchi e nuovi filmaker. Emiliano Serra, classe ’75, sta in mezzo ed allora era solo bambino: la questione però non è di memoria individuale, semmai di coscienza storica collettiva. Senza, può una nazione dirsi tale?
Pedinare, osservare, scattare foto, di nuovo, ancora. Ed è quello che fa il protagonista di Corresponsal - magnifico ambivalente titolo: corrispondente ma anche, per estensione di radice, corresponsabile – Eduardo Ulrich, giornalista al soldo di un gruppo editoriale legato al potere. Tutto quello che gli si chiede è rimanere fedele, tradire la deontologia professionale: spiare, manipolare, calunniare. Ma anche l’ombra ha una luce, ed è così che il tarlo del rimorso inizia a corroderlo.
Corresponsal, presentato in concorso al TFF 42, è un ritratto distaccato – come i dispacci del suo antieroe - dei conniventi inamidati della dittatura, gli intellettuali che stavano al suo gioco. L’untuosa mediocritas di Eduardo (perfettamente impersonato da Gabriel Rosas), si rovescia al di fuori: nel grigiore degli abiti, negli ambienti anonimi, nella luce spenta che sanziona il rigor mortis di un tempo abietto. Viraggio che è come la seconda pelle di un’epoca malata, un automatismo fotografico. Non c’è leggerezza, non c’è sentimento, né colore né calore. Solo blandizia di una socialità camuffata, esposta, consapevole di essere controllata.
Serra non lascia nulla al caso, nemmeno l’umano: 75 minuti di lenta e protratta agonia. Lo sfaldarsi di un potere che inizia a corrodersi dall’interno, in quella dissociazione tra verità e menzogna, prima strumentale e poi suicida. La psicopatologia di una nazione non può che partire dalla scissione di quella che avrebbe dovuto essere la sua coscienza più critica. Il movimento è iterativo, paratattico, sempre meno giustificato man mano che avanza secondo una finta continuità narrativa. I buchi del racconto servono a restituirci il senso di una storia non lineare, di un percorso interrotto. Nel finale però Serra si lascia prendere la mano dalla fretta e dall’ipotesi del delirio (la crisi del protagonista è brusca, repentina), cedendo a un facile simbolismo – i piccioni che infestano la mente di Eduardo come infausti messaggeri. Rischiando di offrire l’attenuante della follia dopo un’inflessibile e lucida requisitoria.