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Conversations with Friends © Hulu
Classe 1991, l’irlandese Sally Rooney è già tra le massime scrittrici contemporanee, la più brava nel raccontare una generazione (quella dei millennials) sospesa tra l’ambizione di non essere come tutti e il desiderio di amare più degli altri, nel dosare lessico e struttura in una forma smaccatamente letteraria, nel posizionare il racconto sentimentale dentro un orizzonte politico, nel descrivere le dinamiche romantiche attraverso gli strumenti tecnologici del quotidiano (vita online, autonarrazione sui social, chat incessanti soprattutto in notturna perché di notte si fanno e si dicono cose che la luce del giorno non approverebbe).
E poi riesce in qualcosa di raro: fa provare empatia nei confronti di personaggi insopportabili. Che spesso sono quelli più simili al profilo – forse alla superficie – della sua autrice: ragazze colte, intellettuali, sessualmente attive, che mal celano la vocazione melodrammatica sotto la restituzione teorica delle tensioni emotive e private.
Sono tre i romanzi all’attivo di Rooney: l’ultimo, Dove sei, mondo bello?, è quello che somiglia di più al primo, Parlarne tra amici, che è all’origine di questa miniserie in dodici episodi da mezz’ora (formato sempre benemerito, producono BBC Studios, Hulu e RTÉ) uscita un anno fa senza scatenare troppi entusiasmi (tant’è che in Italia è arrivata solo ora, un po’ alla chetichella e con il titolo originale, su RaiPlay, forse incuriosita dal potenziale posizionamento nell’alveo del teen drama).
Una freddezza che, inutile negarlo, è dovuta alla serie tratta da Persone normali, il secondo e più celebre – nonché il migliore – romanzo di Rooney, un adattamento che è quasi un capolavoro e – elemento non secondario – ha il merito di aver rivelato il talento dei magnifici Paul Mescal e Daisy Edgar-Jones. Da Normal People arrivano gli sceneggiatori Alice Birch e Mark O’Rowe e uno dei registi, il candidato all’Oscar Lenny Abrahamson, che dirige sette episodi. Manca Hettie Macdonald, che si era divisa le puntate con Abrahamson, ed è rimpiazzata da Leanne Welham: a risentirne è soprattutto quella componente di erotismo e delicatezza su cui si edifica lo sguardo di Rooney e che Macdonald, con il contribuito di una coordinatrice dell’intimità sul set (presente anche qui), aveva saputo trasmettere con incredibile sensibilità unendo il pudore al realismo.
Conversations with Friends è la storia della ventenne Frances (l’inedita Alison Oliver), studentessa di Lettere al Trinity Collega di Dublino, che condivide un appartamento con Bobbi (Sasha Lane), sua migliore amica dai tempi della scuola con cui ha vissuto una relazione amorosa. A una serata di Poetry Slam (una gara di poesia: Frances e Bobbie si dilettano, infatti, nella scrittura lirica) conoscono la trentenne Melissa (Jermina Kirke), scrittrice rampante ed emancipata che i detrattori potrebbero definire femminista da salotto.
Se Bobbie è affascinata da questa figura carismatica, Frances si scopre attratta da Nick (Joe Alwyn), il “marito trofeo” di Melissa, che fa l’attore senza troppo successo. Tra i due, che chiaramente subiscono le personalità dominanti rispettivamente dell’amica e della moglie (e in questa affine subalternità sociale e domestica si riconoscono), scatta subito un’intesa sessuale, mentale, emotiva. Un amore, sì, che entrambi sanno di meritarsi tanto quanto sanno di doverlo mettere da parte per non sovvertire gli equilibri.
I confronti sono spesso fuori luogo e certo su questo piano Conversations with Friends perde la misura del testo simbolico (per una generazione, per un’epoca, per il suo sentimento) per virare verso l’affresco più estemporaneo, magari perfino smaccatamente influenzato da mode del momento e trending topics.
Però è inevitabile ragionare su parallelismi e sovrapposizioni tra i due adattamenti: se in Normal People al centro c’era la tormentata storia di un ragazzo e una ragazza che, tra gli anni del liceo e il post-laurea, si amano, si rincorrono, si perdono, si ritrovano, qui lo schema raddoppia: le coppie sono due, l’una “canonica” (i coniugi) e l’altra meno istituzionale (le migliori amiche che sono state amanti), che si incontrano, si incrociano, si confondono, si disgregano e, a poco a poco, si ricompongono.
E parlano, parlano, parlano tantissimo, con la tipica tendenza di chi deve dare un nome alle cose, destrutturare i sentimenti per renderli più interessanti (accettabili?) agli occhi della propria bolla, dare per forza una dimensione teorica a ogni aspetto della vita. Parlano mentre sbevazzano, smangiucchiano, fumacchiano, snocciolano citazioni di seconda mano, quasi a voler replicare gli antichi modelli socio-culturali della borghesia bohémien.
È una delle cose più interessanti del racconto, perché mette in scena il senso d’inadeguatezza (celato e non) di personaggi che cercano disperatamente di elevarsi dai punti di partenza (Frances e una famiglia disfunzionale, Bobbi e l’ostilità dei coetanei) o di conservarsi nel punto di arrivo (Melissa che non vuole farsi privare di nulla, Nick che vorrebbe privarsi di tutto ma non sa come).
Se c’è una linea sulla quale si muove la storia è proprio come ognuno articola il discorso amoroso: Frances ne è il fulcro, la portaparola dell’autrice e il veicolo d’identificazione del fruitore, l’eroina romantica che per deve attraversare la malattia (l’endometriosi), i guai con il padre alcolizzato e depresso, i tormenti con le persone che ama. E spetta a lei lo struggente finale che, come nel romanzo, è forse la vera ragione per cui esiste questa serie. Che, sì, sembra una soap opera per lettori di Louise Glück o un mélo contemporaneo alla luce di Roland Barthes, ma, pur con i suoi tempi rarefatti e le sue atmosfere a rischio di cliché, sa coinvolgere e appassionare nonostante tutto.