Se l’intento era quello di celebrare Carlo Mazzone, uno dei più iconici allenatori del calcio italiano, Come un padre raggiunge l’obiettivo con scioltezza. Non manca niente, al documentario di Alessio Di Cosimo, disponibile in esclusiva su Prime Video: i calciatori convocati in massa per dispensare aneddoti e omaggiare il mister, i pezzi di repertorio per punteggiare la narrazione, sporadiche scene di fiction per ricostruire l’adolescenza del protagonista.

Divulgativo, leggero, circostanziato, non ci dice niente che non si possa trovare altrove, e di Mazzone fa il soggetto di una consapevole agiografia più che una biografia critica. Ci aspettavamo qualcosa di diverso? No, perché il progetto esprime una dichiarata simpatia per il personaggio, si mette dalla sua parte, legge il mondo attraverso la lente di questo romano che ha segnato le province del mondo del pallone (ha guidato, tra le altre, Ascoli, Bologna, Lecce, Cagliari, Perugia, Brescia, Livorno: ha il record di panchine in Serie A).

E quindi, no, una zona d'ombra come quella che riguarda la Fiorentina degli anni Settanta (la morte sospetta di Bruno Beatrice nel 1987, forse legata a certi medicinali somministrati all’epoca dai medici della squadra: vicenda archiviata per prescrizione) resta fuori campo, giustamente. È tutto nel titolo, che dichiara subito la tesi avvalorata dai calciatori allenati in quarant’anni di carriera, intervistati per l’occasione: più che un tecnico è stato un padre. E a dirlo sono Francesco Totti, Roberto Baggio, Beppe Signori, Pep Guardiola, Andrea Pirlo e tanti altri. Eppure ci sono due o tre cose che val la pena sottolineare.

La prima è che Mazzone non parla mai, se non in qualche filmato di repertorio. È un metodo abbastanza consueto, tipico soprattutto dei documentari post mortem. È comunque interessante vedere quanto la biografia di Mazzone sia restituita dalle autobiografie dei calciatori, come se l’uomo possa essere compreso solo attraverso lo sguardo altrui: quello dei figli putativi che gli riconoscono uno statuto patriarcale in un ambiente maschile come quello del calcio novecentesco.

La seconda è che non esiste squadra italiana in grado di competere con il potenziale narrativo, la dimensione epica, la capacità mitopoietica della Roma. Mazzone, romano, l’ha allenata tra il 1993 e il 1996, senza vincere niente. Ma vincendo, dopo cinque anni, un derby, contro la favoritissima Lazio allenata da Zeman. È coinvolgente la rievocazione di quella partita del 1994: prima c'è il carico di tensione che precede la gara; poi c’è la scintilla che innesca l’impresa; infine ci sono le immagini del trionfo, foto in bianco e nero e scene a colori, alternate al Mazzone di oggi che attraversa un corridoio pieno di manifesti e cimeli di quella partita che vale una carriera, mentre in sottofondo Venditti canta Stella.

La terza è il finale. Dove spunta Mazzone, invecchiato all’improvviso, baciato dal sole, che torna nello stadio di Ascoli, che è un po’ casa sua (nove anni da calciatore, poi sette da allenatore), tira qualche calcio a un pallone, accenna un passo più veloce (nel documentario rivediamo anche la famosa corsa sotto la curva dell’Atalanta, quando allenava il Brescia, e Dario Hübner commenta dicendo: “Ero convinto che non sapesse correre”). Alla fine si commuove, senza darlo a vedere, di fronte all’album in cui suo padre raccoglieva gli articoli dedicati al suo Carletto, giocatore in erba. Come un padre si chiude con il padre che ricorda il suo, di padre, come a chiudere un cerchio. Sui titoli di coda c’è Maledetto tempo, un capolavoro di Franco 126.