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Club Zero
L’austriaca Jessica Hausner è legata alla Croisette sin dal suo esordio, il film di diploma Inter-View, menzione speciale alla Cinéfondation nel 1999, poi tra gli altri Lovely Rita a Un Certain Regard nel 2001 e il battesimo in concorso Joe nel 2019, valso il premio all’attrice Emily Beecham. Il secondo per la Palma è Club Zero, scritto ancora con Géraldine Bajard, che finalizza tanti dei temi abituali di Hausner, dalla riflessione sulle istituzioni al focus sulle libertà individuali, perfino un tot di biopolitica e un focus sul credere (ricordate Lourdes?), con una forma rarefatta, paratattica, invero studiatissima che associa umano e diorama, azione e contemplazione.
Una scuola privata, da qualche parte, in qualche tempo, la neoarrivata Miss Novak (Mia Wasikowska) propone un corso sulla nutrizione, che catalizzerà una dieta progressivamente astinente, fino al digiuno completo. Un gruppo di studenti la segue, con il fervore degli adepti – e forse magra contezza. Il vomito indotto di una ragazza, un compagno diabetico che non prende più l’insulina, ma il peggio – o il meglio, chissà – è da venire, allorché i genitori sono tanto impotenti quanto inconsapevoli e i figli, appunti, soggetti sconosciuti.
Lo iato intergenerazionale, la disconnessione genitori-figli, la sottovalutazione degli insegnati, e segnatamente i disturbi alimentari, la consapevolezza ambientale, i conflitti sociali, l’ansia da prestazione: “Viviamo in un sistema meritocratico che ci obbliga a lavorare sempre di più. Sento che il fallimento dei genitori è sistemico”, osserva la regista-sceneggiatrice e non ha tutti i torti.
Nel cast oltre a Mia Wasikowska, Sidse Babett Knudsen, Amir El-Masry e Elsa Zylberstein, mamme e papà hanno “progetti” a cui badare, case di design dove abulicamente bivaccare, tempo non dedicabile ad altro che non sia l’affermazione personale e la preservazione del successo, sicché il club che disciplina rapporto col cibo e mentalità di gruppo diviene davvero un mondo a parte, con appeso alla parte il ritratto della sua utopica – distopica? - accessibilità.
Mondi possibili, ché il nostro è nei fatti impossibile, e Hausner dopo Joe continua a inquadrare la fuga se non la soluzione, con merito ideologico e urgenza esistenziale.
Ma esaurite, financo esaudite le intenzioni, il dramma piscologico pensante e senziente apre a aporie e irresolutezza, la costruzione rarefatta e artefatta del décor e del quadro rivela crepe. Si avverte un deficit di serietà, che non significa mancate risposte ma domande non ultime, ossia non portate alle estreme conseguenze: al diorama difetta la profondità, all’apologo – scusate – la carne, allo sguardo la radicalità.
Messo sulla bilancia poetica, absit iniuria verbis, Club Zero è leggerino. E torna in mente, montagna che partoriva un rattino, Joe: dov’è la sostanza, meglio, dov’è la consistenza?