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Cloud
Ci ha impiegato circa sei anni, Kiyoshi Kurosawa, per sviluppare e realizzare Cloud, il thriller presentato Fuori Concorso a Venezia 81 che riporta il maestro in laguna dopo il Leone d’Argento per la miglior regia conquistato nel 2020 grazie a Moglie di una spia. Ma le contingenze temporali e i contraccolpi tecnologici hanno giocato a suo favore: come dichiarato dal titolo, termine informatico entrato nel lessico quotidiano che si riferisce all’ambiente virtuale in cui archiviare e memorizzare dati e risorse, la riflessione riguarda le storture e le paranoie della società digitale ad altezza di metafora (l’idea della nuvola è dovuta all’architetto giapponese Sou Fujimoto).
Al centro c’è un ragazzo che si guadagna da vivere smerciando online articoli di vario genere (dispositivi medici, borse, statuette): la routine è poco etica ma consolidata, a un acquisto a basso prezzo corrisponde una rivendita al rialzo, e tutto sommato le cose gli stanno talmente bene al punto da rifiutare promozioni e proposte più redditizie. Le cose cambiano quando decide di affittare una casa in riva al lago: mentre il lavoro procede apparentemente a gonfie vele, viene turbato da oscure presenze online e da alcuni incidenti inquietanti.
Il thriller come chiave d’accesso al contemporaneo: Kurosawa configura lo spaesamento collettivo in quello virtuale, monta la suspence a partire dalle tensioni incanalate ed amplificate dalla rete e dai suoi fruitori, si serve di cliché e stilizzazioni per svelare i temi critici della società. Al di là dei meccanismi innescati dalla specificità tecnologica, lo schema è piuttosto classico: il protagonista si fa imprigionare da un desiderio evidentemente funesto, un’ambizione che lo isola rispetto alla collettività, e le sue azioni innescano senza che lui se ne renda conto quel tipico odio social(e) che è precipuo nell’epoca del risentimento e del rancore.
Da maestro qual è, Kurosawa sa che dove alberga il diavolo, che il genere è uno dei luoghi più creativi dove far riverberare il perturbante, che la tensione non sempre ha bisogno dell’adrenalina. Lavorando sull’ambiguità del protagonista, sulla ferocia del mondo, sull’erosione dello sguardo, cerca l’attenzione del pubblico nel momento in cui le immagini si accumulano fino a distrarci, dà fiducia al cinema per emanciparsi dalle secche di una paranoia contagiosa. L’andamento non è sempre seducente, il ritmo non è esattamente esaltante, ma è sempre interessante scoprire a che punto del cammino si trova un grande autore.