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Il cinema è uno strumento privilegiato per rielaborare le paure del nostro tempo. Non è un caso che tra i generi più fortunati di questi anni ci sia l’horror: permette di accarezzare il brivido, restando comodamente seduti sulla propria poltrona. Da un’attualità schizofrenica è nata la distopia. Le tendenze si mescolano alla finzione, cercando di esorcizzare un futuro che rischia di distruggerci. Il regista Alex Garland si muove tra verità e incubo, flirta con la fantascienza e indaga le contraddizioni della natura umana.
Civil War è un progetto ambizioso, che si interroga sul ruolo delle immagini oggi. In un futuro molto vicino a noi, gli Stati Uniti sono dilaniati da un conflitto interno. Il nemico è l’inquilino della Casa Bianca (il riferimento è a Trump?), che manipola l’informazione e fucila i giornalisti, oltre a massacrare i civili. Un improbabile quartetto, capitanato da una coraggiosa reporter, sceglie di percorrere più di ottocento miglia per intervistare un’ultima volta colui che siede nello Studio Ovale.
Prende vita un on the road feroce, adrenalinico. La brutalità è onnipresente, il dilemma morale è costante, ed è quello che attanaglia ogni “fotografo”: scattare o proteggersi dalle raffiche dei mitra? Al pubblico la risposta, mentre le metropoli sono in fiamme. Spesso ci si dimentica che Garland ha iniziato come sceneggiatore (e anche produttore) nel 2001 con l’apocalisse zombie di Danny Boyle intitolato 28 giorni dopo. La fine del mondo per il cineasta londinese si unisce alla filosofia, attraverso una via intimista. Distrugge microcosmi con creatività, punta il dito contro il patriarcato, ha una cifra stilistica sofisticata, che si proietta verso i grandi enigmi che hanno sempre accompagnato l’umanità.
In Ex Machina, la sua rivisitazione della storia di Frankenstein, si citava Libro blu di Wittgenstein, per definire il rapporto tra creatore e creazione. Per capire gli “errori del pensiero” bisognava tornare alle origini, scandagliare le cause di ogni gesto, provenienti da universi lontani. Quindi la chiave per Garland è nel passato? Non necessariamente. La regressione psicologica porta alla luce i traumi infantili, in Ex Machina il richiamo a L’uomo della sabbia di E.T.A Hoffmann è evidente. Ma è necessario delineare il domani per salvarsi. In Italia purtroppo la serie televisiva Devs non è mai stata distribuita. Ma è proprio qui la chiave di lettura della poetica di Garland: la scienza che si fonde con la spiritualità, la ricerca che diventa l’unico modo per innalzare le nostre coscienze. Era il ritratto di un luogo delimitato, in cui i protagonisti si confrontavano con il loro voler essere Dio.
Anche in Civil War ci si scopre demiurghi mentre ogni certezza collassa. La condanna è al cinismo imperante, alla perdita di sé stessi, e soprattutto alla guerra, che alimenta gli eccessi (l’adrenalina durante l’azione, le risate davanti alla morte), la follia (la sequenza della fossa comune con Jesse Plemons).
Gli eroi di Garland spesso vogliono dominare lo spazio, scatenando anche la loro bestialità. È quello che succedeva in Men, in cui la protagonista era perseguitata dalla presenza del suo ex-fidanzato, che si era tolto la vita per il dolore dell’allontanamento. La minaccia scaturiva da un contemporaneo meschino, dal costante sentimento di prevaricazione. La culla per Garland deve essere una “zona aliena”, tarkovskiana, pronta a racchiudere le nostre fragilità. È stato il caso di Annientamento, da noi direttamente su Netflix. I soldati si trovavano immersi in una dimensione sospesa tra Stalker e una storia di Carpenter. Garland, per costruire l’ultima parte, si affidava alla rappresentazione, quasi azzerando i dialoghi. Sembrava di assistere a uno spettacolo teatrale, poi ripreso anche nel successivo, ma meno riuscito, Men.
Il suo cinema ha un fascino inquieto, legato al tema moderno del gender, all’annullamento del maschilismo. La macchina da presa crea demoni, mette in scena l’oscurità, insegue la luce come se fosse un’utopia. Spesso è minimale, ama le inquadrature simmetriche, osa anche da un punto di vista tecnico. Per Civil War, Garland ha utilizzato una cinepresa all’avanguardia: la DJI Ronin 4D, che permette di essere al centro dell’azione, con movimenti più rapidi. Garland ha allargato lo sguardo: gira sempre in esterni, i suoi paladini corrotti attraversano gli Stati per lanciarsi in un’ultima danza infernale. Civil War ha un enorme potenziale, e poteva essere ancora più scioccante. Talvolta gli episodi, le molte tappe, faticano a unirsi tra loro, e la riflessione sul ruolo delle immagini nella nostra società rischia di perire tra i proiettili e le esplosioni. Ma a suo modo Civil War si rivela un film incendiario, che denuncia la violenza a ogni livello. E affonda le mani nella crisi identitaria degli Stati Uniti: che cosa significa essere americani? Non saremo noi a sciogliere il dubbio.
Questa volta non serve la fantascienza, e lo scorrere del sangue è imperante. Un passo avanti rispetto a Men, ma Devs resta ancora irraggiungibile (come anche le evoluzioni cromatiche di Annientamento). A Civil War non manca però l’animo spettacolare, in un viaggio denso, pieno di chiaroscuri, in cui l’abisso inghiotte ogni sentimento e il domani è tutt’altro che radioso.