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Francesco Rosi e Carolina Rosi
Se si pensa al grande cinema d’impegno civile, al cinema “d’inchiesta”, il primo nome che viene in mente è quello di Francesco Rosi.
Scomparso quattro anni fa (a gennaio 2015), il regista di Salvatore Giuliano, Lucky Luciano, Le mani sulla città, Il caso Mattei, Cadaveri eccellenti e via discorrendo, venne omaggiato nel 2011 con una retrospettiva a New York: “Quando mi arrivò l’invito per parteciparvi – raccontò il regista qualche mese più tardi, alla Mostra di Venezia, mentre ritirava il Leone d’Oro alla carriera – la cosa che mi colpì davvero era il titolo che c’era stampato sul biglietto, Citizen Rosi, evidenziando così la mia figura di cittadino chiamato a fare un mestiere che gli consente di poter partecipare alla vita pubblica del proprio Paese”.
E non è un caso, allora, che il documentario realizzato da Didi Gnocchi e Carolina Rosi (la figlia di Franco, così lo ha sempre chiamato), quest’ultima vera e propria guida narrativa anche sullo schermo, si intitola proprio così, Citizen Rosi, perché quello che inquadra è la natura stessa di un percorso, quello del cinema di Rosi, legato a doppia mandata con mezzo secolo di storia del nostro paese.
Prende così vita un vero e proprio viaggio: Carolina e Franco, insieme, sul divano, ricominciano a vedere i film del secondo. Discutono di quello che c’era dietro (sempre un lavoro approfondito su documentazioni ufficiali, su ciò che “era noto”, per arrivare poi a leggere tra le pieghe di verità spesso taciute o manipolate, vedi Lucky Luciano o Il caso Mattei).
Citizen RosiSullo schermo rivivono le immagini di pellicole immortali, ancora attuali (come ricorda uno dei tanti “testimoni” chiamati a commentare il lavoro di Rosi, Giuseppe Tornatore), capaci di anticipare la narrazione di una democrazia inquinata dalla corruzione fin dalla sua nascita.
Proprio per questo, allora, gli autori del documentario (scritto da Anna Migotto, Didi Gnocchi, con la collaborazione di Fabrizio Corallo e la stessa Carolina Rosi) non si limitano ad “ascoltare” autorevoli colleghi del soggetto principale (oltre al già citato Tornatore, Roberto Andò e Marco Tullio Giordana), ma ampliano lo spettro delle testimonianze affinché il discorso intrapreso finisca per lambire i margini di territori non solo prettamente cinematografici: magistrati (come Vincenzo Calia, Nino di Matteo, Gherardo Colombo) e procuratori (Nicola Gratteri), giornalisti e scrittori (come Furio Colombo, Lirio Abbate, Giancarlo De Cataldo, Raffaele La Capria, Francesco La Licata, Roberto Saviano), storici ed economisti come Antonio Nicaso e Giulio Sapelli.
La storia (anche e soprattutto sotterranea) d’Italia ritorna così in superficie, attraverso i film di Rosi messi in fila non nell’ordine in cui sono stati girati, ma in base alla precedenza storica dei fatti di cronaca che raccontano. E il fil rouge dominante è il racconto del potere che corrompe e si corrompe quando si mischia alla criminalità.
“Non erano film che venivano fatti per risolvere i problemi, ma per testimoniare la strada che secondo me andava indicata al pubblico nei termini più accessibili”, diceva sempre Rosi nel 2012 a Venezia. “Il cinema lo permette, perché c’è un’identificazione oserei dire ‘fisica’ con i personaggi che vengono raccontati: il cinema è conoscenza e comunicazione, questo per la sua funzione di testimonianza e grazie all’incredibile rapporto che è in grado di stabilire con il pubblico”.
E questo bel documentario non fa altro che confermarne gli intenti, e gli esiti. Da vedere assolutamente.