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Sguardo vintage e atmosfere retrò per narrare il mondo poco noto ma a noi vicino, e non solo per ragioni geografiche, del “cinema di regime” durante la Jugoslavia di Tito. Frizzante e confusionario, scoppiettante e stupendamente superficiale come un film di Kusturica - la memoria non può non riandare al capolavoro Underground, - questo documentario diretto con piglio divertito dalla regista Mila Turajlić ha l’innegabile merito di ricostruire le fondamenta storiche dello stato jugoslavo attraverso il filtro della cinematografia nazionale.
Protagonista narrato in terza persona è, naturalmente, il Presidente Tito, la cui passione sviscerata per la settima arte è rievocata dalle parole del suo proiezionista di fiducia, l’uomo che per trentadue anni, ogni sera, ebbe l’incarico di preparare le pellicole da proiettare dinanzi al capo di stato, amante dei western, del glamour dei festival e della compagnia, in carne e ossa, di numerose star hollywoodiane.
Sfilano così in rassegna registi, divi del passato, case di produzione e co-produzioni internazionali per attirare capitali (storie vecchie, storie nuove...), Avala ovvero la Cinecittà costruita a Belgrado, le stelle internazionali (i volti mitici sono tanti, tra cui Orson Welles, Richard Widmark, Yul Brynner e Alain Delon), i festival e i kolossal prodotti da un regime somigliante, col passare del tempo e sempre più, a un gigante dai piedi d’argilla. Non a caso, difatti, un’atmosfera di rassegnata nostalgia per un passato irrimediabilmente perduto, chiude il cerchio con gli accenni alla dissoluzione della Jugoslavia.
Certo, il furore visionario di Kusturica era ben altra cosa, qui non ci sono isolotti dalla sagoma ben delineata che si staccano dalla terraferma e si stagliano nella memoria e nel sogno, ma va bene così. L’operazione nostalgia non dispiace (dispiace invece che la disamina sull’autentico utilizzo del mezzo cinematografico in funzione propagandistica da parte del regime sia, in realtà, poco più che un pretesto per mettere in piedi uno straripante carnevale dei ricordi), ma alla fine c’è da chiedersi se, al di fuori degli (ex)jugoslavi, il recupero di questa memoria importi ancora a qualcuno.