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Ci sei Dio? Sono io, Margaret.
Judy Blume è un monumento della letteratura per l’adolescenza, tra le prime a sdoganare argomenti considerati tabù, da quelli inerenti la sfera sessuale a bullismo e morte. Lo è soprattutto negli Stati Uniti – in Italia abbiamo altre consuetudini editoriali – e perciò non è strano che l’adattamento del suo romanzo di culto Ci sei Dio? Sono io, Margaret. arrivi in Italia alla chetichella (su Prime Video, dopo un lungo periodo solo a noleggio). Ed è un peccato, non solo perché Blume ci ha messo mezzo secolo per convincersi a concedere i diritti, ma anahce perché è difficile trovare un film che, ricalcando la peculiarità del libro, sa dialogare con il pubblico in modo trasversale, parlando ai più giovani senza escludere gli adulti.
La chiave sta sicuramente nell’adesione al punto di vista della protagonista undicenne, con tutto ciò che implica quell’orizzonte fatto di illusioni non ancora perdute ed emozioni che detonano più del dovuto, che conferma la sensibilità di Kelly Fremon Craig – all’opera seconda dopo il bel 17 anni (e come uscirne vivi) – nell’accordarsi ai codici del racconto di formazione. Ma mettersi ad altezza di undicenne vuol dire leggere la realtà circostante e le azioni dei più grandi con un candore che non è artefatto, una severità piuttosto tenera e un’inevitabile immaturità in grado di veicolare autenticità ed empatia.
È già molto nel titolo, Ci sei Dio? Sono io, Margaret.: arrabbiata in seguito al trasferimento da New York a un sobborgo del New Jersey (il padre ha ricevuto una promozione), la protagonista, figlia di un ebreo e di una cattolica, si rivolge direttamente a Dio per confidargli delusioni (si deve distaccare dalle amiche e dall’eccentrica nonna paterna) e nuove scoperte, salvo poi interrompere la comunicazione quando la sua identità religiosa diventa argomento di discussione famigliare.
Ambientata nel 1970 (ricostruzione nostalgica, dalla fotografia di Tim Ives ai costumi di Ann Roth, una veterana che ha lavorato con Pakula, Ahsby, Forman e Schlesinger), è una commedia drammatica sulle orme di Richard Linklater che intercetta con precisione e realismo le tipiche preoccupazioni di una preadolescente nella fase della pubertà (le prime cotte, l’arrivo delle mestruazioni, gli interrogativi sul proprio posto nel mondo) attraverso la lente – non strumentale – della fede, tema che viene affrontato senza richiedere alla protagonista una razionalità che non può (ancora) sostenere ma con uno sguardo laico e schietto.
Craig si muove su più fronti, a volte mettendo troppa carne al fuoco e non trovando la compattezza necessaria, ma è interessante come riesce a incrociare il teen dramedy scolastico (le dinamiche di classe, le crudeltà adolescenziali, il rapporto con docenti e genitori), il racconto di una famiglia alle prese con gioie e difficoltà del quotidiano, il coming of age femminile, intrecciandolo con una serie di sottotrame che vanno dalla mamma Rachel McAdams (ottima nella sottrazione, il papà è interpretato da Benny Safdie) che si riappropria di tempo libero e passioni sopite al rapporto buffo e dolcissimo con la scatenata nonna Kathy Bates (infallibile). Forse, per capire l’umore e il colore di questo film, basterebbe leggere chi figura tra i produttori: James L. Brooks.