Ci sono almeno sei possibili film che si incrociano in Chien de la casse, esordio di Jean-Baptiste Durand premiato con due César (correva per otto statuette: niente male per un’opera prima). C’è il buddy movie fondato su due uomini complementari (l’uno che prevarica e l’altro che soccombe, forse) pronto a rivelarsi un bromance (che è una cosa seria e di non facile gestione per tutto ciò che inevitabilmente sottende un’amicizia tra maschi). C’è, di conseguenza, una riflessione sulla mascolinità contemporanea, su come sopravvivere ai modelli costituiti e come sganciarsi dalle derive più tossiche che imperano soprattutto nei contesti meno illuminati. C’è quindi il racconto di un paesaggio, che va da sé corrisponde a un orizzonte emotivo, una provincia deprimente e sonnacchiosa in cui non accade niente e in quel niente si configura tutto un mondo (di limiti, abitudini, convenzioni, trappole).

C’è la forza tempestosa dell’amore, che travolge, stravolge e fa prigionieri, dove il threesome è un’ipotesi solo sulla carta. C’è il rapporto tra uomini e animali, un cane nella fattispecie, a cui il titolo fa riferimento con tutto il suo portato metaforico (si potrebbe tradurre con “cane da discarica” o, meglio, “da sfasciacarrozze”). E c’è la parabola di formazione, dove tutto costringe (il finale lo esplicita) all’accesso in un’altra fase della vita, dagli ultimi fuochi di un’adolescenza en plein air tra pigrizia e mestizia a un’età adulta che impone l’occupazione di uno spazio che magari non è (ancora) quell’elettivo posto nel mondo ma è sicuramente la stazione di un viaggio.

Galatea Bellugi e Anthony Bajon in Chien de la casse
Galatea Bellugi e Anthony Bajon in Chien de la casse

Galatea Bellugi e Anthony Bajon in Chien de la casse

(Camille Sonally)

Chien de la casse non ha la struttura e la postura per reggere tutte queste traiettorie: se i legami tra i protagonisti sono ben rappresentati e approfonditi, la descrizione dello spazio si risolve in un realismo un po’ facile e la ricercata poesia di strada sembra più un’ambizione che un esito. Niente di grave, perché il film si esalta nell’elemento umano, nell’adesione tra personaggi e luogo, nella tensione emotiva di fronte ai sconquassamenti.

È anche una questione di tono: alla tenerezza malinconica di Anthony Bajon (che, non a caso, si chiama Dog) e Galatea Bellugi, credibili nell’incarnare un sentimento in fieri e il desiderio di emanciparsi dal mondo d’appartenenza per scoprirsi altri da sé, fa da contraltare l’insolenza infantile di Raphaël Quenard (la rivelazione francese più sorprendente degli ultimi tempi, come si vede anche nel coevo Yannick), così centrato nel dar vita a un personaggio di angosciante vitalità, dolcemente contradditorio (accumula citazioni di Montaigne e tratta malissimo l’amico in love), un corpo comico risvegliatosi in un film drammatico dopo una sbornia o, viceversa, un tragico antieroe che deve rivendicare il bisogno d’umorismo. In fondo, al di là delle ingenuità, Chien de la casse funziona proprio per questo: è la storia d’amore tra due amici che devono crescere e fare i conti con la vita e tutto il resto.