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Simone Liberati e Greta Scarano © Fabrizio de Blasio
Forse è un problema di contenitori più che di contenuti, perché altrimenti non si capisce la vaga indifferenza che ha caratterizzato la messa in onda su Rai 1 di Chiamami ancora amore, miniserie in tre puntate creata da Giacomo Bendotti e prodotta da Indigo Film e Rai Fiction, ora disponibile su RaiPlay.
Che la serialità italiana (fiction è un termine ormai desueto se non nel nome della struttura aziendale e nell’immaginario del pubblico) si stia finalmente collocando in una dimensione più internazionale è un dato di fatto, ma è indubbio che tra i player coinvolti (da Sky che ha aperto il varco con Romanzo criminale per poi passare all’exploit Gomorra fino a Netflix sempre più interessata a raccontare l’età dei suoi fruitori principali ovvero i teenager) Rai sia quello che probabilmente riscontra più difficoltà a comunicare la sua evoluzione.
È la tv pubblica, popolare ed ecumenica, d’accordo, che almeno nell’ultimo decennio è riuscita a presentare prodotti a volte perfino audaci per la sua audience abitudinaria. Chiamami ancora amore è una scommessa molto importante perché lavora con intelligenza all’interno del mélo familiare, proponendo un percorso narrativo frammentario e tortuoso abitato da personaggi ambigui e perciò davvero autentici. Un bel rischio considerando il contenitore, come attesta la tiepida accoglienza della prima.
Greta Scarano, Federico Ielapi e Simone Liberati © Fabrizio de BlasioDalla sua parte, però, c’è l’esperienza di Gianluca Maria Tavarelli, un regista sbocciato al cinema e che in televisione ha sempre dimostrato un respiro romanzesco, un’attenzione ai dettagli, il rispetto per la spesso pigra fruizione del piccolo schermo. Tavarelli ha diretto fiction notevoli, dai biopic targati Taodue dedicati a Paolo Borsellino e Maria Montessori fino a Il giovane Montalbano e Maltese, ma al cinema si era imposto alla fine dello scorso millennio con Un amore, che raccontava diciotto anni di un amore in dodici piani sequenza senza seguire la linearità cronologica.
Lo stesso meccanismo ricorre in Chiamami ancora amore, titolo che ha sostituito l’originale La promessa, storia di un matrimonio dal primo incontro allo sgretolamento coniugale che abbraccia undici anni della vita di Anna ed Enrico (eccellenti Greta Scarano e Simone Liberati). Si sono amati tantissimo: si sono scelti, lasciati e poi scelti ancora, hanno cresciuto un figlio e rinunciato a qualche sogno, ma a un certo punto sembra che non sia più sufficiente. Forse l’amore è finito e sono finiti anche il riconoscimento reciproco, il progetto comune, il rispetto verso ciò che c’è stato prima del dolore.
Qualcuno ha tirato in ballo Kramer contro Kramer, qualcun altro Storia di un matrimonio, altri ancora The Affair. Tutte referenze condivisibili, perché la serie riesce ad entrare nel cuore di una guerra di logoramento: l’amore si fa odio, il figlioletto diventa un’arma, la vendetta monta tra umiliazioni inferte e rancori repressi. Il filtro è lo sguardo di un’assistente sociale (Claudia Pandolfi, splendida), prima poco interessata alla faccenda e via via sempre più coinvolta e preoccupata di fronte all’autodistruzione della (ex) coppia. A lei spetta la glossa più esplicativa: “Come si fa ad amare così tanto e sbagliare tutto lo stesso?”.
Claudia Pandolfi © Fabrizio de BlasioParlare d’amore è sempre difficile, specie nell’ambito di una serialità come quella della Rai dove imperano la conciliazione e l’ammorbidimento, e questa serie così matura, feroce, dolorosa riesce a farlo imboccando strade inattese, nascoste dietro le corsie più trafficate, ed entrando nell’andirivieni di un tempo liquido e sfuggente. Quella di Bendotti (che ha scritto anche la sceneggiatura con Sofia Assirelli) è una narrazione che ti sballotta tra gli alibi dell’uno e le ragioni dell’altra e capisce quanto il melodramma sia tale solo se ha la consapevolezza del noir.
A partire da quel titolo originale che cita Friedrich Dürrenmatt, Chiamami ancora amore costeggia il crime nella consapevolezza che ogni storia d’amore ne contiene sempre un’altra che è quasi sempre una storia di fantasmi. Fantasmi che possono essere madri scomparse, figli mai nati, corpi spolpati, memorie sbiadite, tracce di una felicità perduta.
Oppure immagini: il sole calante che si riflette nel lago che bagna Anguillara (location principale della quale si esalta la chiusura provinciale e l’apertura naturale), il fascio accecante di un montaggio video proiettato a tradimento (sulle note di Rubylove di Cat Stevens, nella sequenza straordinaria del primo episodio), la luce calda dei lampioni che di notte si stagliano nelle piazze dove immaginare i progetti oltre l’alba che verrà (nella romana San Lorenzo: è la struggente chiusura del quarto episodio). Per raccontare la distruzione di un amore, questa serie ne ricostruisce la storia destrutturando la cronologia all’interno di un percorso a metà tra la ricognizione sentimentale e l’inchiesta giudiziaria: la tensione perde un po' quota nella puntata finale però, al netto della commozione, è un lavoro sorprendente.