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Forse nessuno, almeno nella storia letteraria dell’Occidente, ha incarnato più di lui la dolorosa compenetrazione fra arte e vita, l’esperienza demiurgica che deflagra e brucia l’esistenza sino a lasciare cenere e delusione. Lui, naturalmente, è Arthur Rimbaud, l’adolescente geniale, il poeta maudit per antonomasia, il ribelle, l’innovatore folgorante della poesia europea nella seconda metà dell’Ottocento. A scavare negli ultimi, misteriosi anni del poeta di Charleville è Bruno Bigoni, autore, con Chi mi ha incontrato, non mi ha visto, di un doc bizzarro ma innegabilmente colmo di ammirazione per una figura ancora oggi sfuggente e affascinante quant’altri mai.
Documentario-indagine che prende le mosse da una presunta fotografia inedita di Rimbaud morente, immagine di cui il regista si sforza di provare l’autenticità, il film di Bigoni trasforma pian piano l’autore delle Illuminazioni in una creatura che sembra uscire dalle pagine di Roberto Bolaño, un artista di genio in perfetto equilibrio tra realtà, leggenda e finzione letteraria. Un’operazione azzardata ma non priva di fascino che corre tuttavia il rischio di essere apprezzata, e compresa nella sua intima ragione, unicamente dagli appassionati lettori che ancora oggi non cessano di tremare nel leggere le pagine incandescenti di Una stagione all’inferno.