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Benicio Del Toro
è il Che
Quante citazioni, memorie eclatanti, pezzi di vita di generazioni possono essere richiamate per dare un'idea dell'icona, del mito, di Che Guevara, spesso (sempre?) fuori dai fondamenti di realtà, come deve essere per i veri miti? Ho trovato un'invocazione su Internet che, nella lista impossibile degli entusiasti, è un possibile indizio di un futuro forse eterno. E' di Lorenzo, e lo scrive così: "C'ho solo 13 anni e l'ho conosciuto da poco ma posso dire con certezza che quest'uomo è un Dio. W Che Guevara!!!".
Come Clint Eastwood, con il doppio film sulla Seconda guerra mondiale, dalla parte degli americani e dalla parte dei giapponesi, ciascuno in forma diversa, Steven Soderbergh ha composto due film su Ernesto Guevara detto "Che". Anche qui, in due forme diverse, il primo dalla parte, oggettiva, della rivoluzione cubana di Fidel Castro, nel cuore degli eventi caraibici a cavallo degli anni '60, il secondo dalla parte, soggettiva, dell'idealismo del militare pansocialista che sogna un Sudamerica unito, nell'ossessiva resistenza nelle foreste boliviane dove, nel 1967, viene ucciso dall'esercito del presidente Barrientos. I due film escono differiti, con due titoli diversi, ma a Cannes il regista aveva richiesto una proiezione compatta, quattro ore e mezza che non ci hanno stancato né entusiasmato. Ma si dimenticano non immediatamente. Interessante la prima, come bigino di storia stampato sul volto intrepido e monocorde di Benicio Del Toro, costruita a incastro tra la celebre invettiva alle Nazioni Unite nel 1964 (in bianco e nero) e la conquista decisiva di Santa Clara, a scoprire anche la nascita di una struttura di rivolta che aveva fondamenti sociali determinanti, coinvolgenti, violenti (si fa onestamente riferimento anche all'inflessibilità, alla durezza del Comandante).
Impressionante, invece, la seconda, ricostruzione dei 300 giorni di Bolivia dove, braccato dalle pattuglie di Barrientos, con un manipolo di fedeli cubani, Guevara sperava di sollecitare i contadini, indigenti, vessati, alla formazione di una forza militare. Qui Soderbegh adotta uno sorta di "stile di guerriglia", camera a mano (la flessibile e leggerissima Red) e concentrazione assoluta sui tempi del reclutamento e poi della fuga. Questa scelta, con effetto espressionista, si allinea al punto di vista emotivo del protagonista, lo incarna, lo proietta. Tenacia e "mission", le due espressioni uniche di Del Toro e della sceneggiatura, informata ma limitata, di Peter Buchman, diventano nel corso della sconfitta una disperata illusione, un patetico e solitario umanesimo che, per qualche momento, ci raccorda all'utopia del Che. Anche a quelle frasi famose che "imbracciava" alimentando una rappresentazione che, in realtà, corrispondeva all'azione: "Dicono che noi rivoluzionari siamo romantici. Sì, è vero. Lo siamo in modo diverso, siamo quelli disposti a dare la vita per quello in cui crediamo". Abbandonato, sconfitto, con la complicità di Castro, Guevara viene fermato. Non è un santino, né un ritratto michelangiolesco. Soderbergh non è l'Abel Gance di Napoleon, né l'Herzog di Aguirre o il Sokurov dell'imperatore Hiroito. E tuttavia resta, dopo la proiezione, quell'involontario ritorno delle immagini del film, del secondo film, infisse come una prova carnale, idealista e materica, in cima al ritratto d'epoca, in fondo tradizionale, del primo film, che si dilegua facilmente.