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Che fine hanno fatto i Morgan?
Che fine hanno fatto i Morgan? Una brutta fine, senza dubbio. Annaspano come due pesci fuor d'acqua Sarah Jessica Parker e Hugh Grant. Incartapecoriti nella riproposizione di sé dentro gusci vuoti di commedia. La solita: sdolcinata più che romantica, concitata non anarchica, bacchettona e mai pungente.
Merce avariata, d'esportazione americana, confezionata dal contrabbandiere di emozioni Marc Lawrence - aveva già diretto Grant in Scrivimi una canzone e Two Weeks Notice, non memorabili - che firma pure storia, dialoghi e condanna definitiva contro un genere logoro e le sue stropicciate bandiere. Così diffidate dei travestimenti: la Parker è sempre Carrie Bradshaw di Sex and The City, nevrotica e inguaiata, modaiola e colpita al cuore, ma dieci anni dopo; Grant sembra ripescato a caso da uno dei suoi tanti film, col pacchetto completo di gesti, tic e movenze da eterno bambinone, recidivo con le donne e nelle debolezze da farsi perdonare. Identici loro, uguale lo schema: si amano, si dividono, si riprendono dopo una serie di sfortunati e poco imprevedibili eventi.
Agiati, noiosi e stucchevoli newyorkesi in procinto di divorzio, si trovano a condividere sorte e pericoli dopo essere entrati nel programma protezione testimoni (sono stati testimoni oculari di un omicido), con destinazione ignota agli altri e impervia a questi epigoni sofisticati del cosmopolitismo liberal: il Wyoming dei rodei e dei pascoli, rude e repubblicano. L'America dei cowboy, perfettamente incarnata da baffoni, stivali e cappello di Sam Elliot, replicante di sè stesso anche lui.
Dai clichè del sentimentalismo cotonato ai battutissimi sentieri del viaggio di maturazione, orientato al recupero di una vagheggiata wild side schietta e familista, cartolina apocrifa e furbetta di un impero che finge di lottare contro se stesso e la sua versione tutta grattacieli e finanza, griffata e debosciata. Finisce con un pareggio perché l'importante è non far male a nessuno. Anche a costo di scontentare tutti.