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Il grande pregio e il limite, forse, del cinema di Roberto Minervini è il suo essere “in diretta”, perché parla del mondo e di ciò che lo scuote praticamente in tempo reale e perché sembra sempre in divenire, cangiante e sfuggente, come un fiume che cambia mentre scorre. E il nuovo What You Gonna Do When the World's on Fire? è ancora più radicale in questa sua caratteristica.
Ambientato a Baton Rouge, in un quartiere a grandissima maggioranza abitato da afro-americani, il film racconta la condizione dei neri oggi attraverso tre storie: due ragazzini che vivono nella zona più pericolosa del quartiere; una barista che deve conciliare la sua vita e la militanza politica; il rinato partito delle Pantere Nere che vuole sconfiggere il rinato Ku Klux Klan che sta tornando a fare vittime.
Documentario che si dispiega secondo una sottile drammaturgia, il film di Minervini come sempre studia un ambiente a lui estraneo, vi entra in simbiosi e lo racconta dal di dentro, stavolta ponendo lo sguardo sui rigurgiti razzisti e le condizioni sociali di una fetta di popolazione enorme e dimenticata.
Girato in bianco e nero, What You Gonna Do When the World's on Fire? è un saggio sull’America profonda e contemporanea, colta qui nel suo bisogno di ribellione verso lo status quo, nel tentativo di risalire la china di una questione politica e civile che per molti è disperata, e lo fa guardando a tre modi diversi di affrontare la questione, passando dalla paura per il mondo “on fire” alla lotta per spegnere quel fuoco e acquisire voce e giustizia. Ma Minervini sembra anche mettere in scena la difficoltà del suo cinema, il lavoro a tratti estenuante su quegli ambienti e quelle persone, come se il film fosse anche la testimonianza “critica” su un metodo di realizzazione.
Per questo sembra ancora più in diretta, immediato, a tratti affannato, perché Minervini vuole testimoniare la sua ostinata ricerca, la sua necessità di entrare in sintonia con gli esseri umani anche quando non gli riesce a pieno (o comunque un po’ meno dei suoi precedenti film), come se l’opera potesse anche riflettere sulle distanze culturali con i soggetti che si raccontano. Lo fa attaccandosi ai primi piani dei protagonisti, incollandosi alle loro parole e ai loro gesti, cercando di afferrare la profondità dei loro gesti e delle loro idee: non ci riesce a sempre e a volte pare girare a vuoto, ma anche nel guardare in viso la propria difficoltà e impossibilità dimostra la sua onestà e la sua capacità di subordinare le necessità del cinema a quelle dell’uomo.