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Zendaya e Josh O'Connor in Challengers di Luca Guadagnino - Credit: Niko Tavernise / Metro Goldwyn Mayer Pictures © 2023 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.
A tennis si può giocare in due. Al massimo in quattro. Quando si è in tre c'è poco da fare, o non si gioca o ci si alterna.
Scelto da Venezia 2023 come film d'apertura, poi cancellato a causa dello sciopero degli attori americani, Challengers di Luca Guadagnino arriva finalmente nelle sale (dal 24 aprile, con Warner Bros.), ed è un approdo travolgente: il presente della storia è nel 2019, ad agosto, su un campo veloce dove i due contendenti, gli sfidanti – i challengers, appunto – stanno giocando la finale di un anonimo challenger a New Rochelle, New York.
Da una parte il biondo, slavato Art Donaldson (Mike Faist), dall’altra il moro, più trasandato, Patrick Zweig (Josh O’Connor). Sugli spalti, posizione centralissima, a separare idealmente il campo proprio come la rete che divide i due avversari, impeccabile e apparentemente impassibile, bellissima ed elegante, Tashi Duncan (Zendaya).
La natura di questo mélo triangolare, che lascia a tratti senza fiato proprio come un batti e ribatti infinito al di qua e al di là del net, la cominceremo a capire strada facendo.
Guadagnino maneggia con spavalda leggerezza formale la (prima) sceneggiatura d’oro di Justin Kuritzkes (consorte di Celine Song, apprezzata per Past Lives, drammaturgo che per il regista italiano ha poi adattato Queer di William S. Burroughs, film in predicato per la prossima Mostra), asseconda l’eccezionale lavoro al montaggio di Marco Costa ed esalta il già di per sé esaltante contributo musicale di Trent Reznor & Atticus Ross (sodalizio che si rinnova dopo Bones and All), trasformando quell’incessante electro-beat (l’ipnosi seduttiva raggiunge il culmine con L'oeuf, traccia utilizzata come raccordo in alcune fasi della vicenda) in ulteriore corpo scenico capace non solo di sottolineare ma di esacerbare gli innumerevoli crescendo dei vari scontri/incontri dialettici tra i protagonisti, e relative svolte narrative.
Quell’inizio match che ci viene gettato in faccia ad inizio film – i close-up sulle gocce di sudore, sulle impugnature, quelle palline scagliate con veemenza che quasi finiscono per colpirci in pieno volto – non è altro che la/il finale di un cammino che inizia ben 13 anni prima: 2006, Art e Patrick trionfano in un doppio, sono amici inseparabili, pronti a sfidarsi in un singolare che lì per lì sembra contare più per uno che per l’altro.
In quel momento della loro vita irrompe con veemenza la lanciatissima Tashi Duncan, sensazionale promessa del tennis studentesco. L’approccio è tripartito, ma il numero di telefono verrà dato solo a chi dei due vincerà quel match: “Non sono una sfasciafamiglie”, d’altronde.
Ecco dunque che Challengers continua a formarsi/sformarsi all’interno di una costruzione che è rimbalzo indefesso tra passato (remoto/prossimo) e presente, con l’andamento dell’ultima sfida che è ulteriore, altalenante metafora del racconto/vita tutto: il ménage à trois sentimental/esistenziale di Guadagnino non è semplice ammicco alle reference cinematografiche più ovvie (Jules e Jim, The Dreamers, e quanti altri ve ne potranno venire in mente), no, è piuttosto paradigma delle infinite possibilità che si nascondono tanto nei rapporti tra le persone (Art e Patrick da amici indissolubili finiranno per perdersi e odiarsi) quanto nella finitezza del rettangolo di gioco.
Gli sfidanti del titolo capiranno – presto o dopo – di essere nulla più che due attori diretti da un’unica regista: “Stiamo parlando di tennis?” – “Di che altro dovremmo parlare?”.
Zendaya – la cui stella, comunque enorme, non ha mai realmente brillato quanto stavolta – è il deus ex machina che disfa e (forse) ricompone, è la lanciatissima tennista che a tanto così dal passaggio ai pro si spezza un ginocchio e pur di non lasciare il tennis si riscopre allenatrice: in fondo lo era già da ragazzina, ma Patrick la considerava una “pari”.
Sarà il ben più mansueto Art – follemente innamorato di lei – a costruire una carriera top sotto la sua guida, la guida di una coach-moglie che costretta a soffocare la propria ambizione ha dovuto ripiegare sul controllo della vita di un altro (da sé).
Il regista di Chiamami col tuo nome e Suspiria (che torna a dirigere un soggetto originale dal 2009, Io sono l’amore) porta all’estremo la conflittualità che uno sport come il tennis fa poco per nascondere, trasportandola al di fuori del match e riversandola sui dialoghi dei suoi personaggi, colti in differenti frammenti delle relative esistenze.
Poi, inevitabilmente, si ritorna in campo, si ritorna alla fine, all’oggi di quell’agosto 2019 – che meraviglia quella scena notturna al di fuori dell’hotel, durante la tempesta di vento, che anticipa il finale… – in cui due tennisti (uno riconosciuto a livello internazionale, l’altro sconosciuto anche al “più accanito appassionato di tennis”) ormai sul viale del tramonto dovranno stabilire, una volta per tutte, chi è meglio dell’altro.
A meno che quell’impercettibile segnale, quel codice che riporta a una vita fa, non faccia ripartire tutto daccapo… Colpire al centro, colpire al cuore. Non solo della racchetta.