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C'era una volta in Anatolia
C'era una volta in Anatolia è uno di quei film che rischiano di farvi sentire stupidi all'uscita della proiezione, quando l'amico cinefilo - o turco, se poi ne avete uno turco e cinefilo è la fine - grida al capolavoro e voi vi domandate, in silenzio, perché mai vi siete torturati di pizzicotti tentando di restare svegli per due ore e mezza. Perché tanto dura, il sesto film di Nuri Bilge Ceylan, cineasta turco di 53 anni che da tempo è tra i diletti del festival di Cannes: dopo aver sfiorato la Palma d'oro nel 2003 con il bellissimo Uzak, è tornato sulla Croisette con quasi tutti i suoi lavori e ha sempre riportato a casa qualcosa di prezioso. C'era una volta in Anatolia, in particolare, ha vinto nel 2011 il Gran Premio della giuria, secondo nel palmarès solo all'indiscutibile Tree of Life di Terrence Malick (e beffando il nostro adorato Kaurismaki, il cui Le Havre era secondo noi più meritevole).
C'era una volta in Anatolia ci ha ricordato da vicino Il sapore della ciliegia di Kiarostami. Anche qui, un interminabile viaggio in auto in luoghi spogli e impervi, anche se rispetto all'iraniano c'è un perché che va al di là della depressione del protagonista. Qui le macchine sono tre, e trasportano un commissario di polizia, un procuratore, un medico legale, alcuni poliziotti e un sospetto arrestato per omicidio. Sono alla ricerca dell'uomo ucciso da quest'ultimo, e sepolto da qualche parte nelle steppe anatoliche. Il presunto assassino dovrebbe trovare il luogo della sepoltura, ma come per il buon Bertoldo che non trovava mai l'albero giusto per impiccarsi, ogni sua indicazione si rivela fallace. Lo spettatore astuto capisce ben presto che le tre auto stanno girando a vuoto, e si attrezza per capire dove Ceylan sta andando a parare. Beh, avete indovinato: l'obiettivo è la Grande Metafora. Gli uomini alla ricerca del cadavere sono la Turchia moderna (la legge, l'ordine, la scienza) divisa fra tradizione e globalizzazione; il morto introvabile è il retaggio di un passato violento, il simbolo di una fragile democrazia costruita sui soprusi. Quando poi la salma viene esumata, gli uomini della legge sono costretti a trasportarla nel bagagliaio di una delle auto, scendendo in qualche misura allo stesso livello dell'assassino.
Tutto questo è molto giusto, molto bello e lievemente noioso. Il film si svolge quasi totalmente di notte, in zone di selvaggia bellezza resa per lo più invisibile dalle tenebre. I lunghi dialoghi sono serrati e qua e là estenuanti: Ceylan volutamente divaga (ad un certo punto, 10 minuti 10! di dialogo su quale sia lo yogurt più buono) per comunicare la mediocrità burocratica dei personaggi. È un film più importante che bello, un documento politico-etnografico più che un racconto, basato su un'idea molto forte in cui però lo svolgimento è prolisso e la sceneggiatura non è all'altezza della regia. Ceylan ha sempre confessato il suo amore per Yilmaz Guney, il grande regista-attore costretto per buona parte della sua vita a dirigere i propri film dal carcere, per interposta persona. C'era una volta in Anatolia avrebbe potuto, effettivamente, essere un film di Guney: sarebbe durato mezz'ora in meno, sarebbero successe più cose e avremmo risparmiato sui pizzicotti.