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“A cosa servono i morti?” Risponde Davide Ferrario con Cento Anni, in cartellone al 35° TFF e dal 4 dicembre in sala con Lab 80. Un documentario in quattro capitoli e altrettanti eventi, e periodi, della storia italiana: si parte con la disfatta di Caporetto del 1917, di cui ricorre appunto il centenario, si prosegue con altre ferite, altre non letterali Caporetto, ovvero, la Resistenza al giogo nazifascista, la strage di Piazza della Loggia e l’attuale crisi demografica, in primis lo spopolamento del Meridione.
Soggetto di Giorgio Mastrorocco, perfezionamento di una trilogia di Ferrario sulla storia patria iniziata con Piazza Garibaldi e proseguita con La zuppa del demonio, coinvolgimento di artisti e intellettuali quali il musicista e scrittore Massimo Zamboni, gli attori Marco Paolini e Diana Hobel, il poeta e attivista Franco Arminio, il violoncellista Mario Brunello, il doc trova Caporetto, la Risiera di San Sabba e la diga del Vajont; Zamboni e, raccontata nel libro L’eco di uno sparo (Einaudi, 2016), la sua vicenda: il nonno, gerarca fascista, è ucciso da due partigiani, uno dei quali successivamente ucciderà l'altro; la strage di Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio del 1974, inquadrata da testimoni, parenti delle vittime e bresciani di prima generazione; lo svuotamento demografico del Sud, con Arminio che dall'Irpinia alla Basilicata traccia la nuova, speculare questione: “A cosa servono i vivi?”.
Già da questa sinossi si capisce bene quale sia il problema di Cento anni: l’eterogeneità, ovvero l’assoluta discrezionalità nell’individuare le altre, simboliche Caporetto. Che c’azzeccano? Nulla, diremmo. Il puzzle è controvertibile, e comunque assai precario: non conoscessimo valore e rigore di Ferrario verrebbe da pensare che prima abbia scelto le voci, ovvero le persone, da Zamboni a Arminio, e poi abbia accostato le rispettive storie e competenze al centenario di Caporetto. Così, alla bisogna.
Non privo di sequenze di fascino visivo (le riprese col drone di cimiteri e memoriali) e interesse storico, per lo più confinate al primo capitolo appunto, Cento anni perde senso e sostanza man mano s’avanza, risolvendosi in un finale ottimismo e “chiamata alle armi” rivolto ai giovani che pare superficiale, se non incongruo. Insomma, quattro singole e singolari sconfitte non fanno una sinfonia vincente, non consegnano un documentario vittorioso.