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Sorprende che uno come Apichatpong Weerasethakul, uno dei pochi registi al mondo capaci ancora di dare al cinema il proprio nome e cognome, se ne stia fuori dai giochi del concorso. Sorprende anche più dopo aver visto il suo ultimo Cemetery of Splendour, meraviglioso e visionario “Amarcord” del regista thailandese, un’opera forse addirittura superiore allo Zio Boonmee che gli valse cinque anni fa la Palma d’Oro.
Come sempre nei film di Apichatpong la trama è solo un inizio – uno tra i tanti - da cui partire per riedificare il mondo, fluidificarlo, coglierlo nell’incessante mutazione che lo vede transitare senza soluzione di continuità dal reale al magico, dall’onirico al mitologico. La traccia da cui parte Cemetery of Splendour è un fatto realmente accaduto qualche anno fa in un villaggio nel Nord della Thailandia, dove diversi soldati erano stati ricoverati in ospedale a causa di una forma misteriosa di narcolessia: improvvisamente erano piombati nel sonno.
Weerasethakul riporta il fatto a una dimensione squisitamente autobiografica, ambientandolo nella sua città natia, Khon Kaen, nella regione dell’Isan. I soldati vengono ricoverati in un ospedale provvisorio allestito sulle spoglie di una vecchia scuola, quella del regista. Molti non si svegliano più, come intrappolati in una zona morta, altri invece si destano anche se solo per poche ore. Tra questi Itt, un militare senza famiglia che viene accudito da un’anziana del villaggio, la premurosa Jenjira.
Jenjira Pongpas Widner è una vecchia conoscenza di Apichatpong: “Il cervello che avrei tanto voluto, un cervello che ricorda tutto”, la descrive il regista. E Jenjira è una sorta di Virgilio della memoria anche per il soldato (lo stesso Apichaptong?), che continua a passare dal sonno alla veglia, in uno stato di dolce e indefinita sospensione che è lo stesso che permea Cemetery of Splendour, con le sue bizzarrie, le luci ipnotiche, le meraviglie inglobate nel quotidiano.
Non c’è mai nulla di banale nel suo cinema: non lo è l’acquisto di una pomata per la pelle, un ballo di gruppo, una serata al cinema. Nemmeno dormire è banale. Può sempre succedere di tutto. Quanti sono i registi che hanno questa capacità di aprirci una feritoia da cui guardare ex novo il mondo, con rinnovata curiosità e stupore di bambino?
Cemetery of Splendour è il bazar delle meraviglie che Apichaptong ha allestito per noi un momento prima dell’alba, quando la fantasmagoria scompare e fa capolino la prosa della realtà. L'una e l'altra però strettamente intrecciate, come il filo e lo spago: c'è il soldato che vuole ancora dormire e insieme l’anziana del posto che vorrebbe risvegliarsi dall'incubo, perché questa nuova Thailandia non le piace.
Tutto in tutto. Come l'acqua continua a mulinare scambiando eternamente con se stessa, così è l'universo-vita dove materia e non materia, corpi e fantasmi sono solo momenti esteriori di un unico flusso rinnovatore. Cemetery of Splendour rappresenta così la quintessenza del suo cinema, un'esperienza totale in cui si entra e basta: vale il sensoriale più che il senso, la metafora non significa nient'altro che se stessa, il simbolo viene preso alla lettera, le condizioni di credibilità del reale liquidate in nome di una superiore coscienza medianica.
E’ anche un viaggio à rebours trasognato e nostalgico, limpido e ironico, sulle tracce dei luoghi cari, dei volti gentili, dei miti e delle superstizioni che di qui a poco verranno travolti dalla ruspa del tempo. Il santuario sul lago pieno di dinosauri di gomma offerti come oggetti votivi; il multisala che proietta il vecchio e temibile action thailandese; il bosco con le sue statue di terracotta e le stanze di un palazzo reale solo immaginato eppure così vicino, "reale".
E tra guerrieri a riposo e divinità di carne, la vecchia Janjira cerca ancora il cuore del regno trovandolo "in un campo di riso”. Che umile, splendida, spudorata elegia.