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Luis Tosar in Cella 211
Juan Olivier (l'attore rivelazione Alberto Ammann) si appresta a prendere servizio come secondino in un carcere. Per fare buona impressione, si presenta un giorno prima e - in seguito ad un piccolo infortunio - rimane suo malgrado "imprigionato" nel bel mezzo di una rivolta. Per sopravvivere, dovrà gioco forza "camuffarsi" e farsi passare per un galeotto: Malamadre (un epocale Luis Tosar), leader indiscusso tra i detenuti, rimane favorevolmente colpito dall'audacia del nuovo arrivato, sedicente omicida e con le idee molto chiare. Il gioco di ruolo, però, si complica ora dopo ora: per fare pressione sul governo, Malamadre e i suoi prendono in ostaggio tre carcerati "sensibili", appartenenti all'Eta, mentre fuori i funzionari e i rappresentanti del ministero sembrano perdere terreno sulla negoziazione. Come se non bastasse, Juan vorrebbe a tutti i costi tranquillizzare Elena, la moglie incinta di sei mesi, rimasta senza sue notizie da troppi giorni.
Quarta regia per lo spagnolo Daniel Monzón, Cella 211 (presentato alla scorsa edizione delle Giornate degli autori veneziane) è - al pari de Il profeta di Jacques Audiard (9 César in Francia) - uno dei più interessanti "prison movie" degli ultimi anni: teso e politicamente scorretto, violento e muscolare, getta più di qualche semplice ombra sulla situazione carceraria spagnola (estendibile, con le dovute esagerazioni del caso, anche all'attuale condizione nostrana). Servendosi di volti e presenze difficilmente arginabili (su tutti, il già citato "Malamadre" e l'Apache colombiano, interpretato da Carlos Bardem, fratello di Javier), Monzón porta sullo schermo il romanzo di F.P. Gandull e - seppur con qualche lungaggine verso il finale - offre ottimi spunti di amara riflessione (da che parte bisogna stare, in galera, per essere nel giusto?) e altrettanti momenti di grande cinema. Premiato con 8 Goya, gli Oscar spagnoli, tra cui Miglior film, regia, attore (Luis Tosar), adattamento, montaggio e suono.