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Quella di Carmen e Lola è una comunità autosufficiente: ognuno vi contribuisce come può e, ciò che può, deve. Ma le regole della tradizione, la cui rigidità può essere tanto rassicurante quanto opprimente, non impediscono certo di sognare, anzi, sono quasi uno stimolo. Un ingombro oltre il quale immaginare l’orizzonte.
Ma ognuno, di orizzonte, vede il proprio: Carmen vuole sposarsi, mettere su famiglia e diventare parrucchiera. Anche se “lo fanno tutte le gitane”, a detta di Lola, che invece vuole studiare, insegnare, viaggiare con il corpo e la mente.
Tra le due, per caso e per gioco, come una “tonteria”, nasce un’attrazione. Per entrambe è una scoperta, di se stesse e della sessualità, ma anche dell’affetto. Carmen è promessa ad un uomo, ma l’accordo siglato può essere legge, non esperienza. Questa, al contrario, le arriva da Lola, dal suo coraggio, persino dalla sua ostinazione a non smettere di volerla. Il loro gioco d’amore, a quanto pare, è serissimo.
Al punto che, inevitabilmente, si scontra con un mondo di consuetudini inderogabili e valori monolitici: onore, sincerità, rispetto. Quello di Carmen e Lola è un affronto contro il mondo, una pazzia, una malattia da “curare”.
Peccato che, proprio quando all’apice del conflitto, la regia di Arantxa Echevarria (Premio Goya 2019 per Miglior Regista Esordiente) perda aderenza dal ritratto realistico, efficace, per tingersi dei colori del romanzo più sognante.
Una scelta comprensibile, per quanto depotenzi la precedente accumulazione di pathos, graduale, progressiva, attenta. La via d’uscita imboccata è una soluzione facile, affrettata, per lenire il dolore ancora fresco e bruciante delle protagoniste. Ma forse solo sognando quel dolore potrà, un giorno, svanire.