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Capitalism: A Love Story
Forse, il miglior Michael Moore di sempre. Ovvio, un tanto al chilo, perché nonostante il regista di Flint, Michigan, sia un filo smagrito, il suo cinema continua a doversi pesare sulla bilancia: quantità, più che qualità, ovvero contenuti a scapito di uno stile indifferente al cinema tout court. E il Michael Moore di Capitalism pesa assai: poderoso, omnicomprensivo, arrabbiato, affabulatore e, qui e là, geniale.
Non solo, è la definitiva consacrazione di un "non regista", ovvero uno straordinario performer, comunicatore di razza, ad alto tasso di faziosità, che qui tuttavia sparando contro la Croce Rossa - la truffa finanziaria - pare quasi essere relegata nel fuoricampo.
Ancora più importante, la sofferenza in presa diretta è meno invasiva, ovvero più dignitosa del solito, quasi che di fronte alla rapina a mano armata del sistema finanziario nemmeno le lacrime servissero. La partita, insomma, è già vinta prima che il film inizi, ma Moore fa ugualmente di tutto per non perderla: sotto il suo fuoco, tra umorismo, sarcasmo e "santa" cattiveria (pure la Chiesa è dalla sua parte contro l'abominio capitalistico), cadono in tanti, dall'immancabile Bush a vari ministri del Tesoro e alle tante aziende che lucrano assicurativamente sulla vita, ovvero la morte, dei propri dipendenti di fascia bassa (Dead Peasants), fino al nemico pubblico numero 1, la banca d'affari Goldman Sachs, che, Moore dixit, sarebbe stata pure la prima finanziatrice con 17 milioni di dollari (in conferenza stampa ha poi ridotto a un milione...) della campagna elettorale di Obama.
Tra presa diretta e materiale di repertorio, Moore tiene quasi incollati sulle poltroncine, passando dalla Luna a Roosevelt, dai subprime ai derivati - con sequenze esilaranti di professori ed economisti babbei -, dagli scioperi in fabbrica alle case sequestrate dalle banche, per fare una cronologia critica della crisi: poco creativo, forse, sicuramente utile, se non necessario.
Due esempi per illuminare difetti e pregi di Capitalism: ottusa e sciovinista è nel film l'asserzione che la nostra Costituzione, ma pure la tedesca e la giapponese, sia così civilmente illuminata perché output diretto, alla fine della II Guerra Mondiale, dei collaboratori di Roosevelt, che se non fosse morto avrebbe dotato gli Usa di "analoga" carta dei diritti; straordinaria, viceversa, la conclusione, con Moore a delimitare con il nastro giallo la Crime Scene finanziaria: Wall Street, Goldman, e via dicendo, vorrebbe arrestarli da privato cittadino. A confermare la sua natura: piccolo regista, grande artista performativo. Potrebbe bastare, comunque, per vincere il Leone d'Oro: a furor di popolo..