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Primi e primissimi piani di bambini che piangono, violini e musiche in crescendo, droni al ralenti e disavventure misere e dolorose di ogni sorta. A Nadine Labaki e al suo flm Capharnaüm sembrano non interessare molto le storie e i personaggi che racconta e nemmeno il contesto sociale del suo Libano, se non come mezzo per commuovere lo spettatore.
Il racconto parte con il piccolo Zain che in tribunale vuole fare causa ai genitori per averlo messo al mondo: in flashback, il film mostra la vita orribile che ha vissuto fino a quel momento, tra povertà, fughe, abbandoni e desolazione.
Labaki, assieme a Jihad Hojeily e Michelle Kesrouani, assembla la vicenda con gusto per l’accumulo (d’altronde un "cafarnao" è un luogo confuso o un accumulo di oggetti) e trasforma un dramma dagli accenti neorealisti in un mélo spudorato e greve sulla sofferenza dei più piccoli.
Il pretesto del dramma legale, abbandonato in poche sequenze a dire il vero, serve alla regista per costruire la sua storia e dare un senso narrativo al feuilleton di sventure: di base dovrebbe essere il canto di denuncia della povertà, dello sfruttamento dell’immigrazione, dell’innocenza non del tutto perduta di una generazione priva di ogni sbocco o riconoscimento.
Ma nella sostanza, vista anche la modalità con cui Labaki usa la storia e la messinscena, resta tutto secondario di fronte alla volontà di colpire il pubblico, di manipolarne le emozioni e le reazioni, di farlo piangere non in nome di qualcosa, ma per l’equazione pianto=bellezza.
Sia chiaro, nessuno pensa che il melodramma popolare sia retrivo o deleterio di per sé, e la storia del cinema lo dimostra di continuo, ma le modalità cinematografiche con cui la regista lo declina sì: la patina filmica della fotografia, gli snodi della sceneggiatura più vicini a Moll Flanders (o a una soap pauperista) che al racconto della comune povertà nordafricana, l’uso di elementi di messinscena reiterati, la mano pesante con cui Labaki fa recitare i suoi attori, soffermandosi sui bambini.
E non si arresta fino alla fine: dentro Capharnaüm c’è tutto ciò che può far piangere uno spettatore comune, assemblato però con superficialità grossolana nonostante la parvenza tecnica. Che poi quei bambini e quel popolo sia al centro di un buco nero chi se ne importa: alla fine la musica emotiva ne sottolinea i sorrisi. In primissimo piano.