“Qui non muore nessuno”. È una frase che in Campo di battaglia di Gianni Amelio viene ripetuta due volte. È il manifesto programmatico di un film che dichiara apertamente di volersi distaccare dalla realtà, per accarezzare l’utopia che tutti desideriamo. Esistono guerre in cui non muore nessuno? Esistono conflitti in cui sono più i salvati dei sommersi? La risposta la conosciamo tutti.

Amelio, con lucidità, si fa portatore di un desiderio impossibile, dialogando con il passato e guardando a un presente sempre più oscuro. Gira un film non di guerra, ma sulla guerra. Il titolo è la chiave di lettura, come se fosse Soldati di Ungaretti. Di quei versi Amelio condivide la Grande Guerra e il numero di morti che ormai non si può più contare.

Ma non siamo in trincea. Siamo in un ospedale militare dove si curano i malati gravi con lo scopo di rimandarli al fronte “col fucile in mano”. L’ufficiale medico Stefano è ossessionato dagli autolesionisti, quelli che si procurano da soli le ferite, li odia, li considera vigliacchi della specie peggiore. Ma qualcosa di strano accade nelle corsie: alcuni feriti, invece di guarire, si aggravano. C’è qualcuno che di notte manipola i sintomi dei disperati per farli tornare a casa, perché non si alimenti lo scontro, perché i soldati, quasi dei ragazzini, non diventino cavie di una morte sicura. Intanto l’influenza cosiddetta spagnola esplode sempre più incontenibile, attacca i militari e i civili, si diffonde nella città...

Campo si battaglia lega due eventi in un’unica storia tragica, dove i soldati fanno i conti non solo con le lesioni da arma da fuoco ma con un morbo sconosciuto che le alte autorità vogliono tenere segreto. Qui Amelio scava davvero in profondità, si interroga su quale sia il mistero che si annida dietro a ogni tipo di violenza. Anche la malattia incurabile diventa una guerra. Il “campo di battaglia” sono i letti d’ospedale, i laboratori in cui si cerca una cura, i corridoi del potere in cui generali che inseguono orizzonti di gloriase ne infischiano di chi ci lascia la pelle.

Amelio va in controtendenza. Invece di raccontare bombe e cannoni, realizza un film serrato sui personaggi, medici e militari, con rigore estremo, dove brilla l’uso della macchina a mano. Sembra di assistere a lunghi carrelli, ma in verità la cinepresa è libera di muoversi sotto lo sguardo attento di un maestro, come se fosse un occhio che scruta da vicino l’orrore e si ritrae perché ne ha paura. Bellissima la sequenza iniziale: un uomo in divisa fruga nella notte tra i corpi cercando di derubarli delle miserie che portano in tasca. Tra i cumuli di cadaveri spunta una mano che chiede aiuto. Stacco. È giorno, si parte con la risata del sopravvissuto che mostra agli altri quella mano che l’ha salvato. Ma in tutto il film c’è un gioco di opposti, una sorpresa in cima a ogni sequenza. Senza essere un film di genere, Campo di battaglia è costruito su una suspense continua, sul desiderio insopprimibile di giustizia tanto caro ad Amelio fin da Colpire al cuore o Porte aperte.

Lo scontro si fa incontro, e brillano anche i tratti distintivi del suo cinema: la genitorialità perduta e putativa, i fantasmi di un tempo lontano che diventano attualità, l’amicizia stretta e l’amore non dichiarato. Non sorprende la sua forza sicura nel dirigere gli attori (impeccabile l’interpretazione di Alessandro Borghi, sorprendenti Gabriel Montesi e Federica Rosellini). La parola svetta, l’occhio rivendica una sua moralità in un’epopea carica di passione, indomita nel suo ritmo classico. Un film che invita all’ascolto, alla negazione dell’indifferenza. Campo di battaglia è l’ode toccante a un cinema che vuole essere di tendenza, potente nel suo incedere, che sa districarsi con maestria tra illusione e verità. In concorso alla Mostra di Venezia.