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Campioni (credits: Shauna Townley/Focus Features)
Non è il caso di riesumare l’antico adagio su come chi nasca incendiario alla fine muoia pompiere, ma è interessante osservare la parabola di Peter e Bobby Farrelly, assurti alla gloria grazie a una serie di commedie grevi e di rottura come Tutti pazzi per Mary e Amore a prima svista.
Al di là delle facili letture, la carriera dei fratelli è abbastanza interessante e segna una via inedita al racconto delle turbolenze sentimentali, incrociando in modo piuttosto spericolato l’afflato demenziale e il sottotesto malinconico, l’attenzione alle minoranze e la scorrettezza che tracima nella volgarità. Dopo alcune esperienze non proprio fortunatissime (i remake di Lo spaccacuori e I tre marmittoni: in fondo quando un regista dispone di budget alti finisce sempre per rifare i film che ha amato da ragazzo) o comodamente derivative (Scemo & + scemo 2), superati i sessant’anni, i due si sono messi in proprio.
Peter ha indovinato un furbo buddy movie nostalgico che gli è valso addirittura un Oscar (Green Book, ma il più recente Una birra al fronte passato su AppleTv+ è un bel po’ fiacco), Bobby si lancia ora nell’avventura solista con un remake di Non ci resta che vincere (titolo originale: Campeones, da cui l’americano Champions e relativa traduzione italiana), commedia spagnola del 2019 che non solo ha portato in sala oltre tre milioni di spettatori in patria, ma ha anche offerto uno di quei concept che funzionano a tutte le latitudini.
All’origine c’è il ricordo di una storia vera (quella dell’Aderes Burjassot, squadra di basket che ha vinto i campionati per disabili in Spagna dal 1999 al 2014), d’accordo, e lo schema narrativo è risaputo e prevedibile: un coach di una serie minore, fumantino e insoddisfatto (Woody Harrelson intonato), che, dopo una lite in campo con il suo superiore, viene affidato ai servizi sociali per novanta giorni, periodo in cui deve occuparsi di una squadra formata da giocatori con disabilità intellettive e difficoltà di apprendimento. Ovviamente dapprima è recalcitrante, poi a poco a poco si rende conto che quella può diventare un’occasione di riscatto per lui e per quella comunità: lui gli insegna le regole del basket, loro a vivere meglio.
È evidente che Farrelly abbracci la quintessenza del feel-good movie, una storia ottimista che fa stare meglio chi la vede (pur con tutto ciò che ne consegue, in primis una temperatura emotiva che rende tutto fin troppo rassicurante), ma la cosa più interessante di Campioni è come il regista riesca a mettere il suo sguardo “scorretto” all’altezza di un racconto così sfacciatamente “corretto”.
D’altronde già nei film con il fratello c’era un’attenzione alle persone con disabilità, con tutte le ambiguità del caso ma con la esplicita volontà di proteggerle da un approccio edulcorato e ipocrita: i ragazzi di Campioni sono carne viva, fanno l’amore e hanno desideri, cercano di convivere con i propri limiti e si scontrano con quelli altrui.
Per una volta segnaliamo l’ottima decisione della distribuzione italiana che per il doppiaggio dei protagonisti ha scelto otto non professionisti, affetti da sindrome di down e dello spettro autistico. L’inclusione si fa anche così.