PHOTO
Leo Gassman in Califano
L’incipit è una dichiarazione d’intenti: Leo Gassman che, dietro gli occhiali da sole, canta Me ‘nnamoro de te mentre fuma una sigaretta tra le luci soffuse di un locale degli anni Ottanta. La scelta della canzone è indicativa: c’è la quintessenza di Franco Califano, non solo per quell’alternanza tra il registro quasi recitato (in questo caso romanesco, con la tendenza al sonetto) e l’esplosione cantilenante (“na na na na na…”: il poeta che si affida al verso), ma per la capacità di inquadrare l’autobiografia (o l’automitologia, che per Califano è una differenza sfuggente) con un romanticismo disperato.
Il setting è altrettanto preciso, con quel locale che evoca le atmosfere di Romanzo criminale soprattutto sulla superficie (il vestiario, i bicchieri di whisky, le luci che tagliano il buio). E il venticinquenne Gassman, alla prima esperienza da attore con cotanto cognome in dote, mette subito in chiaro che l’obiettivo non è Tale e Quale Show, con uno sfoggio mimetico che esula dall’imitazione per farsi meno occasionale e più autorevole. La chiave di lettura ce la dichiara poco dopo, quando i flashback ci portano nella Roma della Dolce vita e lui rimorchia una ragazza pur di entrare in un locale, rivendicando quanto ogni sua azione abbia “tutta ‘na poesia in mente e un desiderio d’avventura”.
Califano, tv movie Rai in una puntata per la regia di Alessandro Angelini, restituisce l’icona sottolineando i tratti che l’hanno reso popolare: l’irresistibile seduttore, l’uomo che non deve chiedere mai, il poeta maledetto, il divo travolto dal successo che non sa svincolarsi dalle cattive compagnie. Una lettura se non agiografica perlomeno conciliante, non a caso i navigati sceneggiatori Isabella Aguilar e Guido Iuculano sono partiti da Senza manette, memoir che il cantautore ha scritto con Pierluigi Diaco, che trova la sua cifra soprattutto quando coglie il protagonista – segnato dalla prematura e improvvisa scomparsa del padre, vero fantasma della storia – nell’atto della creazione (un po’ troppo tradizionale: l’ispirazione, il foglio su cui gettare le parole, la resa immediata…).
Per approccio e confezione, Califano somiglia agli altri biopic celebrativi che la Rai ha dedicato agli artisti italiani. Certo, come quelli su Nino Manfredi, Alberto Sordi, Domenico Modugno si concentra soprattutto sulla giovinezza, ma se lì ci si fermava nel momento della consacrazione qui si sceglie di raccontare le tenebre dell’artista, tra arresti spettacolari (“Mi hanno assolto per non aver commesso il fatto” ci dice Califano dopo il primo fermo, in un passaggio che a Boris chiamerebbero “lo dimo”) e relazioni pericolose (il boss Francis Turatello).
Il problema è che questo Califano (un conservatore liberale da giovane vicino al post-fascismo e poi amico di chiunque) sembra un po’ edulcorato, a tratti perfino ingenuo, vittima di sé e del suo personaggio, depurato di quella dimensione spavaldamente oltraggiosa che l’ha reso davvero cantautore di prima grandezza. D’accordo l’amore (per quanto, anche qui, sempre su un piano accomodante), ma anche la vita di borgata (che non è solo quella su misura per i Vianella), il mondo di Pasolini letto da un’altra prospettiva, l’autofiction prima che fosse di moda (infatti la realizzazione di Impronte digitali durante gli arresti domiciliari è la cosa più interessante). Poi, sì, il pur bravo e per certi versi sorprendente Gassman forse non regge completamente la maturità anagrafica e non solo del Califfo, ma il bignami pop ha le sue regole (comunque meglio di Non escludo il ritorno).